Il dramma del mese
Orienti di Duccio Camerini
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Orienti debutterà a Roma al Teatro Belli (in Trastevere) il 28 ottobre 2003. Gli interpreti sono: Duccio Camerini, nel ruolo dell’uomo che non ha un nome Crescenza Guarnieri, Jolanda - Cristina Cellini, Madame Chinoise - Daniele Natali, Camillo Arcangelo Iannace, Fosco - Francesca Rocca, Isolina - Emiliano Passaro, Galerio. Le musiche sono composte da Gianluca Cucchiara. Le scene sono di Tiziano Fario - lo stretto collaboratore e scenografo degli ultimi spettacoli di Carmelo Bene. I costumi sono stati realizzati da Silvia Duranti. Una produzione “La casa dei racconti” organizzata da Duccio Camerini e Cristina Cellini, in collaborazione con la Rag Doll Produzioni e il Centro Culturale “G. Belli”.
“Orienti” è un racconto sulle diversità razziali e le migrazioni in occidente, a cavallo tra un’epoca che muore, quella del mondo contadino, e una che nasce, quella industriale. Grazie a questa tematica, “Orienti” viene presentato con il patrocinio dell’ Alto Commissariato dell’ ONU per i rifugiati, ACNUR.
I tre testi che compongono “Orienti” sono scritti secondo il linguaggio del TeatroInAscolto – che già la compagnia aveva sperimentato nei suoi precedenti allestimenti – e sono stati oggetto di studio in uno stage di tre mesi promosso dalla “Casa dei racconti” insieme all’Assessorato alle politiche culturali del Comune di Roma.
Di cosa parla:
“Voi al posto di chi vivete?” con questa domanda ha inizio la prima parte di Orienti. E' la storia di un uomo che non ha un nome. Ed è anche la storia di un ragazzo che è stato battezzato troppe volte. E la storia di un uomo che non vorrebbe più essere chiamato da nessuno.
E di una ragazza che resta con un nome dentro la testa per tutta la vita. Ma è anche la storia di una zingara che non si ricorda più dove è nata. E di una donna che cerca la sua rinascita verso il tramonto. E infine di un uomo che trova gli alberi nel deserto. È una storia che si svolge in Italia. E si svolge in Montenegro. Si svolge in Libia. Si svolge in America. È una storia che forse parla del futuro. Comincia nel 1878.
I tre spettacoli e i loro giorni di rappresentazione:
Orienti 1 – La Chiamata (1873-1911) Martedì, Venerdì
Orienti 2 - Il Viaggio nella Notte (1912-1939) Mercoledì, Sabato
Orienti 3 – L’Alba (1940-?) Giovedì, Domenica
Gli spettacoli sono tra loro complementari, ma del tutto indipendenti l’uno dall’altro. Lo spettatore può decidere di assistere agli spettacoli seguendone l’ordine, oppure scegliendo un proprio autonomo “percorso”, o vedendone anche uno solo, anche fosse il numero 3.
Sul confine di Leonardo Franchini
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Sul confine è stato presentato al Festival di Todi nel settembre del 1989 con un grande successo di pubblico e critica (fino ad oggi unico caso di replica straordinaria nella storia del Festival di Todi). Prodotto dalla Compagnia di Valeria Ciangottini e Pietro Biondi, che hanno interpretato i due personaggi, per la regia di Paolo Emilio Landi. Lo stesso spettacolo è stato trasmesso più volte su Rai 3 nel 1991.
Di cosa parla:
L'incontro tra una terrorista in fuga, braccata dalla polizia, e un prete relegato a svolgere la propria missione religiosa, priva di una sincera vocazione, in una gelida chiesetta di montagna, frequentata solo da pochi anziani. Ne nasce una cruda riflessione sulla fede, politica da una parte, religiosa dall'altra.
La stampa:
La pagina de "Il Messaggero" dell'8/9/2003
P.M.T. "Italia Oggi"
Gli anni di piombo possono finire anche in una sperduta chiesetta tra le valli alpine, dove trova ripaqro una terrorista inseguita dalla polizia, aiutata a malincuore da un prete che non ha più niente da fare in quella solitudine: scomparsi i fedeli, rimasti pochi vecchi nelle catapecchie valligiane, i quali aspettano di morire cullati dai sermoni del reverendo che somigliano a favole per bambini indifesi. Così in poco meno di un’ora d’intensa drammaticità, si dipana la parabola del prete buono (prete per caso, perché entrò in seminario non avendo altre scelte, senza vocazione, pur di poter studiare, affascinato dai libri) e della terrorista, prima spavalda e poi indecisa, spaurita, fragile, quasi vittima della sua stessa aggressività. Ma in questo dramma di Leonardo Franchini (che di copioni ne ha sfornati una ventina) per la regia di Paolo Emilio Landi, la vera vittima è il prete, di martirio psicologico. E’ lui che vede fallire la propria fede religiosa, non meno della terrorista che sconta il peccato di aver creduto, per fede politica, che il mondo si possa cambiare con la violenza. Come mettere in scena il crollo di ogni ideologia, rivoluzionaria o pacifica, con le armi del teatro. Lei arriva di notte nella chiesetta, al confine con la svizzera, mentre incombe il frullare degli elicotteri degli inseguitori e l’abbaiare instancabile dei cani (di gran suggestione gli effetti sonori che, non meno del giusto dosaggio delle fievoli luci, avvolgono la scena: una chiesa vera, antica e sconsacrata, piccola e commovente, con la ribalta-passerella proprio sotto la navata dove i due protagonisti si muovono a contatto del pubblico, tra l’altare e l’abside). La terrorista si finge morente e chiede la confessione. Il prete è costretto a farla entrare e lei lo ha subito in pugno: non tanto per la minaccia della pistola, quanto perché gli rinfaccia di aver tradito la rivoluzionaria verità evangelica che non esclude la violenza per il bene dei giusti. Allora è lui, il prete, che quasi si confessa e le spiega il proprio fallimento: di sacerdote controvoglia, che in tanto squallore ha solo un po’ di grappa per scaldarsi, per trovare la forza di bruciare gli ultimi banchi rimasti in chiesa, per dare un po’ di calore ai vecchi, raccontando loro che dopo morti non sentiranno più freddo. Quando la terrorista (che aveva ucciso un poliziotto, pentita, ne cerca invano la tomba) torna dopo anni nella chiesetta, nel ricordo cocente di quella notte di disperazione, il prete è anche lui un vecchio malato, cieco, che per non impazzire si trastulla col sibilo di un violino. Allora è lei che sa consolarlo. Gli ripete la favola che raccontava ai suoi vecchi, mentre lui crolla sull’altare, ginocchioni, fino all’ultimo flebile suono consolatore, ravvivato (una speranza della luce del rosone della chiesa, che si stampa sulla parete, inquadrando il volto dell’ex terrorista). E’ Valeria Ciangottini che le presta quel volto, angosciosamente misurato, si direbbe, sulle facce delle vere terroriste che riempivano le pagine dei giornali negli anni di piombo. Il prete è Pietro Biondi, ben aiutato in questo ruolo da un registro di voce sofferto al pari del sembiante. Gli applausi, alla fine, non si sono contati.
Gastone Geron "Il Giornale"
Con la sua mistica atmosfera la sconsacrata chiesetta di San Benedetto è risultata la madrina ideale al battesimo scenico di “Sul confine” di Leonardo Franchini, incentrato sul drammatico incontro scontro tra un’invasata terrorista e un parroco di montagna da sempre vissuto nella solitudine dimissionaria di un isolato borgo a ridossa della peraltro irraggiungibile svizzera. A turbare il vecchio prete arrivato al sacerdozio senza vocazione pur di sottrarsi ad un destino di miseria intellettuale e materiale, e più innanzi consacratosi al confronto spirituale e materiale di una comunità valligiana di anziani ormai senza speranza, e l’improvvisa irruzione notturna nella sua chiesa alpestre di una ragazza inseguita dalle forze dell’ordine dopo una cruenta azione terroristica. La ravvivante acuta regia di Paolo Emilio Landi e del suo assistente Ignazio Chessa ha ridotto all’essenziale gli originali due tempi del trentino Franchini, bipartendo la seconda parte nel prologo e nell’epilogo di una vicenda trasferita a cavallo di un flash-back che evoca, a distanza di un decennio, la notte in cui i rispettivi fragili equilibri del vecchio sacerdote e della ragazza estremista furono per sempre distrutti. E’ una vibrante, intensa, essenziale Valeria Ciangottini a rimandare le nevrosi, gli eccessi, i ripensamenti della ragazza con la pistola, arrivata ad uccidere nell’illusione di vedere l’alba di una nuova epoca, laddove invece era soltanto un insanguinato tramonto. In un capovolgimenti di ruoli e di aneliti, è adesso il prete ad aver perso fiducia, alle soglie di affrontare la giustizia suprema. Merito precipuo di autore, regista, interpreti restano il pudore e l’essenzialità con cui si sono accostati ad uno scottante tema che ancora oggi ustiona le coscienze.
Francesca Bonanni "Il tempo"
Realmente nuovo per il tema che affronta è Sul confine di Leonardo Franchini, presentato nella chiesa di San Benedetto con la regia di Paolo Emilio Landi e l’interpretazione di Valeria Ciangottini e Pietro Biondi. In una sperduta chiesuola di montagna, al confine tra l’Italia e la Svizzera, giunge una giovane terrorista assassina, braccata dalla polizia e dai carabinieri. Ad accoglierla c’è un prete cinquantenne solitario e deluso, sacerdote più per necessità che per vocazione; lo scontro tra i due sui temi morali e religiosi è violento, ma il sacerdote decide ugualmente di salvare la donna, camuffandola con gli abiti di un religioso, impegnato ad officiare la Santa Messa. Passano gli anni e il sacerdote vecchio e cieco, prossimo alla morte, sente la necessità di avere accanto a se’ l’antica ospite (la narrazione teatrale in realtà inizia a questo punto, per poi passare al passato, e ritornare di nuovo al presente. Nell’incontro finale i ruoli dei due interlocutori si invertono e sarà proprio l’ex terrorista pentita a ridare al sacerdote in preghiera dinnanzi all’altare la certezza della fede. Ben vengano, dunque, i temi nuovi; in questo caso poi ottimamente presentati al pubblico da una risoluta e caparbia Valeria Ciangottini e da un tormentato e debole Pietro Biondi. Bravissimi entrambi ed applauditi a lungo dagli spettatori. Per le discrete ma significative scene aveva lavorato Jack Frankfurter, pittore tra i più quotati sul mercato statunitense.
Francesco Quaglietti "Il Messaggero"
Visto il notevole afflusso di spettatori e lo spazio assai ristretto utilizzato, la chiesetta sconsacrata di San Benedetto, largamente insufficiente a soddisfare le molte richieste, Silvano Spada ha consentito, prima eccezione del genere in tre anni, una replica straordinaria di Sul confine di Leonardo Franchini, con Valeria Ciangottini e Pietro Biondi. Il regista Paolo Emilio Landi ha voluto sottolineare l’interesse del pubblico per una tematica di estrema attualità. La risposta e i consensi del pubblico, ha detto Landi, dimostrano che la scelta del direttore artistico Spada di puntare su un giovane autore e un giovane regista, si è rivelata vincente. Altro elemento sottolineato da Landi è stata l’interpretazione intensa e partecipe degli attori che ha valorizzato ulteriormente le qualità espressive del testo. Una cruda riflessione sulla Fede, sia essa politica o religiosa, che l’autore ha sviluppato con efficacia. Una tematica d’impegno civile e di analisi di problemi contemporanei di cui, sempre meno, si tratta in teatro. La risposta del pubblico, ha concluso Landi, è stata per me un incitamento a continuare sulla strada della produzione di spettacoli legati al quotidiano e come giovane regista mi auguro che gli impresari e gli autori scelgano il rischio di produrre spettacoli sempre più legati a problematiche che la gente sente come sue. A teatro si deve tornare a parlare di problemi attuali, si deve avere il coraggio di programmare non solo testi consacrati ma anche spettacoli che diano spazio alla trasfigurazione metaforica del quotidiano.
Kren di Francesco Randazzo
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Kren ha vinto la Prima edizione del Premio Dramma in Rete e sarà prodotto dal Dramma Italiano del Teatro Nazionale Croato HNK Ivan pl.Zajc di Fiume nella prossima stagione teatrale con la regia di Nino Mangano e con Elvia Nacinovich nel ruolo della protagonista femminile.
Motivazione della giuria del Premio Dramma in Rete
Spaventosa, allarmante metafora della condizione umana vittima impotente di un potere dittatoriale assurdo e malefico, il testo di Francesco Randazzo si segnala per la forza simbolica e la semplicità verbale di una scrittura drammaturgica ricca di risonanze teatrali novecentesche, in particolare il Pirandello della trilogia dei “Miti”, che coniuga in un unico lacerante canto poesia e realismo, ideologia e sentimento. L’impeccabile costruzione testuale, attenta ai minimi dettagli, dei gesti e dei movimenti dei personaggi, così come degli insondabili misteri dell’animo umano, riesce a fare convivere in uno stesso spazio scenico il tempo passato e quello presente, come la piega di un’unica immedicabile ferita.
Di cosa parla:
La memoria di una donna trasmessa alla giovane nipote, ricrea il personaggio del marito Alekander, poeta operaio, scomparso anni prima su un'isola di torture, (ispirata a Goli Otok, ma che nel testo diviene metafora universale di "isolamento" e follia della violenza degli uomini sugli uomini) dove venivano deportati tutti coloro che fuoriuscivano dalle strette maglie di una società dittatoriale. E là, come per un'alchimia del bisogno d'umanità, i prigionieri, pur diversi per estrazione, razza, ideologia (cattolici, islamici, ebrei, atei) instaurano una rete di solidarietà ed amicizia che mai nel mondo ebbero. Costretti al lavoro più duro ed inutile, sognano le loro vite passate, un mondo migliore, una fuga impossibile. Nessuno di loro si salverà. Ma un messaggio, attraverso i quaderni del poeta, giunge fino al domani sognato, fino alla giovane nipote, Aurora, attraverso la storia di un amore spezzato, di vite e destini infranti e l'esortazione alla speranza ed al rinnovamento: Non dimenticarmi Non dimenticateci/ Abbiamo sofferto e siamo morti non per voi/ ma per tutti noi che adesso siamo nel vostro/ sangue nel vostro respiro nella memoria vivente/ dei vostri corpi rinnovati Aurora che verrai/ Il tempo passato e il tempo futuro s'incrociano e si mescolano, ricreando un'altra realtà sublimata, evocativa della storia, che viene affidata alle nuove generazioni con fiducia nell'utopia bellissima della libertà e della pace . Tutti si guardano/ e ridono/leggeri/ come rondini/ che non hanno casa/ e vivono nel cielo/ Lo stesso cielo di ogni paese/ da qui fino a Baghdad/ ed oltre.
Tango di Francesca Zanni
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Tango ha debuttato sulla scena nel 2000 al Teatro dell'Orologio di Roma. E' stato trasmesso dalla Rai per "Palcoscenico" nel febbraio 2002. Una nuova edizione, è stata rappresentata dal 18 marzo al 20 aprile scorso al Teatro Due di Roma con la regia dell'autrice, interpretato da Crescenza Guarnieri e Rolando Ravello, con le musiche originali di Daniele Silvestri, il disegno Luci di Edoardo Sabelli, le coreografie di Luciano Donda, le foto di Fabio Lovino. Ha ottenuto i Patrocini di Amnesty International, delle Abuelas de Plaza de Mayo e di Ponte della Memoria. Un progetto Teatroinascolto® prodotto da La Casa dei Racconti e la Contemporanea ‘83.
Note di regia
In un ambiente unico (che poi scopriremo rappresentare due luoghi diversi) un uomo e una donna raccontano la loro storia parlando direttamente al pubblico.
L’uomo e la donna non parlano mai tra di loro, ma i loro monologhi si intrecciano e il loro racconto a volte sembra combaciare: si capisce che le loro vite scorrono parallele e stranamente incrociate, ma fino all’ultimo non sarà svelato qual’ è il nodo che li unisce. I due personaggi appartengono a due periodi storici diversi, ma stanno raccontando la stessa storia. Solo nel finale si guarderanno finalmente negli occhi e si “parleranno” per la prima volta, ballando insieme un simbolico tango.
Il rapporto diretto con il pubblico è di fondamentale importanza: c’è nella scrittura un continuo passaggio dal racconto del passato al racconto del presente e la presenza di un interlocutore, anche se muto (il pubblico, appunto), rende possibili questi salti temporali, evitando che il testo diventi troppo “letterario”. È come quando si racconta ad un amico qualcosa che ci è successo: non si bada molto all’esposizione esatta degli avvenimenti: si torna indietro nel tempo con la memoria e poi si va avanti e poi ancora indietro, finchè alla fine tutte le tessere del puzzle combaciano perfettamente e chi sta ascoltando ha una visione completa dei fatti.
Non ho voluto, di proposito, creare una scena complessa, così che lo spettacolo potesse essere rappresentato anche in spazi non prettamente teatrali, o in teatri piccoli, non tradizionali (senza palcoscenico o con il palcoscenico a livello del pubblico). Pochissimi elementi caratterizzano i due ambienti: una coperta e delle candele per lei e un martello e delle foto da appendere al muro per lui. Mi sembrava più interessante lavorare proprio sul concetto di “racconto”, privilegiando questo aspetto alla ricerca estetica.
Con gli attori ho lavorato in modo che quello che viene detto sia sempre detto e mai recitato: la verità della storia narrata è più importante della tecnica, del “mestiere”.
È una storia che poteva capitare a chiunque di noi, se fossimo nati e cresciuti in quell’epoca, in quel paese, in quel regime dittatoriale.
E chiunque di noi avrebbe potuto raccontarla.
Francesca Zanni
Di cosa parla:
Un pezzo di storia dell’umanità che qualcuno preferirebbe dimenticare: Argentina, desaparecidos. Due vite scorrono parallele. I due protagonisti condividono la forza della giovinezza, l’orrore per la perdita dell’identità e la passione per il tango. Lo spettacolo è nato per sensibilizzare l’opinione pubblica su una pagina della storia che per molto tempo è stata bandita dalle informazioni governative. Tango è ancora oggi uno spettacolo di denuncia sociale e di attualità, infatti proprio in questi giorni è in atto a Roma il Processo d’Appello alla sentenza di condanna del 6.12.2000 della Seconda Corte d’Assise di Roma. Lo Stato Italiano, insieme ai familiari delle vittime, ai sindacati CGIL, CISL E UIL, si è costituito parte civile contro i militari argentini responsabili della scomparsa di molti cittadini. Infatti, non tutti sanno che molte delle vittime, i desaparecidos, erano italiane. Questo atto della giustizia italiana segna un momento importante nel rapporto tra storia e memoria ricordandoci, attraverso il calvario dei perseguitati italiani, l’orrore di una dittatura che ha rappresentato uno spaventoso crimine contro l’intera umanità. In particolare vuole ricordare che l’Associazione delle Abuelas de Plaza de Mayo è attiva da più di vent’anni nella ricerca delle famiglie d’origine.
L'idea
Ho sempre pensato questa cosa: le idee girano, sono nell’aria e ti arrivano addosso quando meno te lo aspetti. L’idea di “Tango” è arrivata all’improvviso, dopo aver letto un articolo su un giornale. Parlava dei figli dei desaparecidos argentini. Figli che sono stati rubati, adottati illegalmente dagli stessi carcerieri e torturatori, figli che non lo sanno. Ancora oggi le madri dei desaparecidos, a quasi vent’anni dalla fine della dittatura, ogni giovedì si radunano in Plaza de Mayo, a Buenos Aires, per chiedere giustizia. Queste madri sono anche nonne, nonne di nipoti che non hanno mai visto: le loro figlie furono portate via incinte e uccise dopo aver partorito. Il traffico dei bambini era piuttosto redditizio e ancora oggi molti ex militari vivono da liberi cittadini. Come dire: quello che è stato è stato, voltiamo pagina, si ricomincia da qui e pazienza se qualcuno si è perso, se non si trova al posto giusto, mettiamo la polvere sotto al tappeto e così sia. Ma l’associazione delle “Abuelas”, le nonne, si è messa in testa di cercarli questi nipoti e di riportarli a casa. Si calcola che siano più di 200 i bambini sottratti ai loro veri genitori. Le nonne di Plaza de Mayo ne hanno già ritrovati 65. E aspettano gli altri, per raccontargli chi sono veramente.
Quando ho cominciato a scrivere non sapevo che cosa sarebbe successo, se questo spettacolo l’avremmo realizzato, se mai qualcuno l’avrebbe visto, se saremmo stati capaci di raccontare qualcosa che non sappiamo. L’unica cosa che ho pensato è stata “se possiamo mettere anche soltanto un pezzetto di questa storia nei cuori della gente, se possiamo incastrare questa tesserina nel puzzle, anche se imperfetta, anche se storta, ma sincera, io sarei felice”. Si, lo so, non è una storia “nostra”, non è successo qui, ma non possiamo fare a meno di pensare che è una storia che appartiene all’umanità, una storia che tutti dovrebbero sapere. Forse la mia generazione, quella dei trentenni, è una generazione senza sogni, senza grandi ideali. Abbiamo un buco alle spalle che non ci permette di guardare avanti con coraggio, come un’interruzione della memoria, delle tradizioni, di quello che ci dovrebbe appartenere, così noi non apparteniamo a niente, né a un’idea, né a una filosofia, né a un movimento. E viviamo dei sogni di altre stagioni, di altri uomini: il ’68 o la guerriglia dell’America Latina. Eppure i ragazzi di oggi si identificano facilmente con quelli di allora, forse perché hanno la stessa età, forse perché vorrebbero un’utopia da condividere e fanno propri degli ideali che non esistono più. Ma chi sa davvero cosa è successo? I ragazzi di allora sono stati cancellati, un’intera generazione è stata spazzata via: un buco di trentamila anime dietro di noi. E chi è rimasto non sa di essere l’erede di una stirpe di eroi. Così, in “Tango”, Miguel scopre di essere il figlio di Carla, morta in carcere, e non del militare che l’ha rapito. Semplice. Come se fosse semplice scoprire che non sei quello che hai sempre creduto. Come se fosse semplice andare a morire sapendo che là fuori c’è tuo figlio. Come se fosse semplice sciogliere quel nodo. I due protagonisti vivono in due tempi diversi, non parlano mai tra loro, ma condividono la forza della giovinezza, l’orrore per la perdita dell’identità e la passione per il tango. Non si conosceranno mai, ma si assomigliano. E mentre scrivevo mi saliva dentro la rabbia di sapere che di certe cose si preferisce non parlare. E mentre scrivevo ho capito che tacere significa essere, in qualche modo, complici. E mentre scrivevo, quasi senza sapere niente di quei fatti, cercando di parlare solo di sentimenti, provando a immaginare vite e pensieri, ho scoperto che altri stavano raccontando pezzi diversi di quella stessa storia, con libri e film e altri spettacoli, e mi sono chiesta perché? Perché adesso, perché tutto insieme? Perché tante voci che parlano di una sola cosa? Forse perché le idee girano, sono nell’aria e ti cadono addosso senza preavviso e feriscono più persone, qualcuna di striscio, altre al cuore. O forse soltanto perché adesso è tempo di sapere. Semplice.
Francesca Zanni