Il dramma del mese
La gabbia di Alberto Bassetti
- Scritto da Marcello Isidori
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La gabbia ha vinto il premio I.D.I. NEL 1995, ed è stato pubblicato da Hystrio.
Alla fine di aprile "La gabbia" sarà in scena con la produzione della compagnia "La famiglia delle ortiche" e il "Teatro stabile del Friuli Venezia Giulia", per la regia di Cherif. Con Luigi Mezzanotte e Carlo Di Maio.
La storia
Un temporale sta inondando la città, un Uomo è prigioniero nel proprio ascensore, bloccato dal black out. Nella villa non rientrerà nessuno, per giorni: la sua famiglia è in vacanza, ed egli stesso era sul punto di partire per un viaggio (almeno ufficialmente) di lavoro. Madido di pioggia, armato solo di una torcia elettrica, appare inaspettatamente un Altro uomo. Dopo vari tentativi, l’Altro si rivela impossibilitato dal dare un concreto aiuto all’Uomo prigioniero. Almeno, finché non torni la luce.
Presentazione del testo:
La Gabbia nasce dall’urgenza di indagare la nostra attualità attraverso l’insicurezza e l’insoddisfazione non di un emarginato, ma di una persona apparentemente realizzata che si trova in una situazione di costrizione che potrebbe esserle fatale. Un temporale sta inondando la città, un Uomo è prigioniero nel proprio ascensore, bloccato dal black out. Nella villa non rientrerà nessuno, per giorni: la sua famiglia è in vacanza, ed egli stesso era sul punto di partire per un viaggio (almeno ufficialmente) di lavoro. Madido di pioggia, armato solo di una torcia elettrica, appare inaspettatamente un Altro uomo. Dopo vari tentativi, l’Altro si rivela impossibilitato dal dare un concreto aiuto all’Uomo prigioniero. Almeno, finché non torni la luce. Si instaura gradualmente tra i due un rapporto sottile, teso ed ambiguo: specie quando l’Altro si rivela a conoscenza di tanta parte della vita dell’Uomo. Anche la più lontana, recondita, segreta… Forse sta scoprendo queste cose semplicemente rovistandogli la casa, leggendo i suoi diari, lettere, poesie. Oppure, quelle cose, l’Altro le sapeva già… Un inquietante amalgama di dramma, ironia, sogno, illumina il mondo interiore di due uomini, così diversi, così simili…. Ma il finale, lucida invettiva sulla condizione umana ed ancor più sul vivere contemporaneo, pur chiarendo tutto dal punto di vista della logicità, lascerà aperte diverse strade. Il dubbio, che resta nell’animo di ciascuno di noi. L’idea della commedia è nata dall’incontro con un attore, Andrea Giordana, che mi ha parlato del suo problema legato alla claustrofobia. Il comune interesse per la psicoanalisi ha portato i nostri discorsi a focalizzarsi verso questa immagine dura, icastica, che già all’aprirsi del sipario ci coglie in tutta la sua drammatica quotidianità. Un percorso affascinante che ribadisce in me l’idea che il teatro debba essere la sintesi di forti e sentite esperienze personali, culturali, sociali: sempre, però, verificate dalla carnalità, dalla sintonia con l’attore e (è bene sottolinearlo) con lo spettatore.
A. Bassetti
Conversazione per passare la notte di Raffaella Battaglini
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Conversazione per passare la notte ha vinto ex-aequo il Premio Idi nel 1993, e nel 1998 (nella traduzione francese) ha vinto il secondo premio al Prix Théatre Italien Contemporain. E' stato pubblicato nella collana Ricordi Teatro, e su Hystrio. E' andato in scena nella stagione 1995/96 con la regia di Federico Tiezzi (interpreti Marisa Fabbri, Magda Mercatali, Alvia Reale, Gianfranco Varetto, Rossana Piano, Gianluca Barbieri).
Di cosa parla
Dal sito www.outis.it
Due narratrici cercano puntigliosamente di ricostruire, senza approdare ad alcuna certezza, la successione degli avvenimenti (nefasti, non sappiamo se nel vissuto o nel loro subconscio) che hanno devastato un nucleo familiare borghese isolato in una villa di campagna. Sono due donne vecchissime morte da tempo. Gli indizi fanno ritenere che siano state madre e figlia, dunque di età differenti, ma nel non-luogo nel quale avviene la loro conversazione le differenze anagrafiche e i legami del sangue hanno perduto rilevanza. Sia i personaggi sia la loro storia contano meno, nel testo, di un incombente, metafisico personaggio, il Tempo, che fa scattare le trappole della memoria. Raffaella Battaglini ha in Conversazione capacità di coinvolgimento quasi immediate, ordisce la trama delle allusioni con cui le due narratrici s’aggrappano ai ricordi, trascorre dagli abbagli della memoria alle scene del racconto “autentico” e ci rinvia all’indicibile gravità degli accadimenti di cui erano lastricati gli inferni quotidiani e borghesi dell’ultimo Bunuel e, più su, alle atmosfere torbide di un Mirabeau. Ecco in questo testo, le inquietitudini deel’adulterio, l’anomala conflittualità tra madre e figlia, il libertinaggio e la malattia del capofamiglia che si concludono in monomania mistica, la presenza mitizzata di un “ladro d’amore” che sarà causa involontaria della rovina dell’integrità familiare, fino ad un delitto (ipotizzato, temuto o consumato: non lo sapremo mai) che unirà in un’inestricabile complicità le due donne.
Note dell'autore:
Quando ho iniziato a pensare a questo testo, avevo in mente già da tempo l'immagine iniziale, quella di due donne vecchissime sedute, spalle al pubblico, davanti a una finestra spalancata. In modo ancora vago, sapevo che si trattava di una madre e di una figlia. Sapevo che stavano raccontando una storia; e, soprattutto, sapevo che stavano ricordando. Da molto tempo volevo scrivere un testo sulla memoria. Ma il progetto ha preso forma soltanto quando ho capito che le due vecchie narratrici erano morte, e che la storia che stavano raccontando era la loro. In quel periodo stavo rileggendo Dante, e in qualche modo, attraverso la Divina Commedia, si è fatta strada l'idea che le mie protagoniste fossero due dannate, e che l'atto stesso del ricordare, del ricordare eternamente, fosse la loro particolare forma di dannazione. Ricordare, e dimenticare: quello che m'interessava soprattutto, nell'alternarsi delle due voci, e nella dissonanza delle versioni, era raccontarne l'ambiguità, le omissioni e le manipolazioni messe in atto dalla memoria al fine di addomesticare il ricordo, di renderlo
sopportabile. Che fossero condannate al dubbio, questo m'interessava, anche oltre la morte; e l'idea che il vissuto, benché visto "da fuori", al di là dell'esistenza stessa, continuasse a dimostrarsi inconoscibile. Ecco perché, nel testo, sono così labili i confini tra ciò che viene ricordato e ciò che è soltanto immaginato; ed ecco perché, anche, le "ricostruzioni" delle due protagoniste assumono inevitabilmente un carattere di messinscena: una messinscena del ricordo, anzi, più precisamente, una messinscena del ricordo come finzione.
Raffaella Battaglini
Anatomia della morte di... di Marcello Cotugno
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Anatomia della morte di... è stato uno dei Sette spettacoli per un nuovo teatro italiano per il 2000 concorso bandito dal Teatro di Roma. Questa la motivazione: Nello stile dell'inchiesta, della ricerca di una parvenza di verità, del processo indiziario, questo testo analizza problemi, situazioni, malesseri, solitudini del mondo giovanile. Interessa l'uso non banale e non convenzionale del personal computer, utilizzato non solo per proprio uso ma anche per la comunicazione interpersonale; interessa lo sguardo attento sul mondo giovanile, un mondo che qui parla in prima persona, sottraendosi agli sguardi paternalistici con i quali generalmente viene osservato dal mondo degli adulti.
ANATOMIA DELLA MORTE DI…
di Marcello Cotugno regia di Marcello Cotugno. Co-produzione Associazione Culturale Beat 72 e Teatro di Roma. Con:Paolo Zuccari, Daniele Pecci, Massimiliano Bruno, Laura Nardi, Lydia Biondi, Giorgio Colangeli.
Note dell'autore:
Anatomia della morte di… rappresenta un grido strozzato in gola, una richiesta d’attenzione per le storie che, pur non partendo da una periferia, cercano di raccontare degradi interiori di piccole persone di scarso interesse. Tutto si svolge in un teatro fatto di parole ma anche di tecnologie, che però non disarcionano il verbo. La parola che, quando tenta di raccontare cose in cui ci si possa riconoscere, quando cerca di smascherare una o più verità sulla triste condizione umana, resta il ‘quinto elemento’ di comando della situazione drammatica. E poi la velocità, il ritmo, la scansione di tempi aggressivi, la scelta di tematiche forti. Perché il mondo sta andando allo sfascio. Nuove tecnologie, nuove intelligenze, il computer come estensione del cervello, internet come estensione del computer, il teatro come massima estensione di tutto. Perché è la vita. Quella che cambia in continuazione quella che ti schiaccia per terra, quella che ti fa svegliare a quarant’anni e ti fa pensare che tu sei un fallito… Borghesi, piccoli, inutili, ma forse non colpevoli. O forse sì. La colpa è un concetto superato. E il computer corre e va a cercare le ragioni, le motivazioni, le assolute mancanze che hanno portato un ragazzo, un altro ragazzo, a dire "Oggi è l’ultima volta che vivo". Così è stata la nostra vita, piena di non lo so, di come sto male, di superficialità banali ed a volte inconsapevoli. Perché Daniele si è ammazzato? Perché abbiamo sempre bisogno di confessare tutto? Perché almeno una persona deve sapere. E allora un consiglio: qualunque cose facciate, qualunque terribile atto decidiate di commettere, non parlatene mai con nessuno, ognuno ha perlomeno una persona di cui si fida, e sarà la vostra fine, il segreto sarà sulla bocca di tutti, come il rossetto di quella puttana, quella mora, bella, colombiana da cui tutti dovreste andare prima o poi, il suo nome è Jennifer…
a suivre…
Marcello Cotugno
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Le luci di Algeri di Gianni Guardigli
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Le luci di Algeri (Un requiem di fine millennio) ha vinto il premio Flaiano 2000. Con il patrocinio di AMNESTY INTERNATIONAL e la produzione di Studio 12, la Compagnia IL PANTANO diretta da Claudio Frosi ha debuttato con lo spettacolo lo scorso febbraio. Dopo una tournèe estiva riprenderà le repliche presso il TEATRO DELL’OROLOGIO di Roma dal 21 novembre al 23 dicembre 2001
Di cosa parla:
Novità assoluta della drammaturgia italiana contemporanea assume, alla luce dei tragici fatti di New York, un valore addirittura anticipatore. Il tema trattato è infatti una delle orribili e troppo numerose stragi che deturpano il suolo dell’Algeria, ed ora anche dell’occidente. Lo spettacolo si propone come un incontro tra Culture, un Requiem, un pianto funebre scritto e rappresentato da occidentali in onore di bambini algerini, vittime innocenti sgozzate da altri algerini. Laddove ancora una volta sono le donne, nel loro dramma di madri e di mogli, a subire impotenti il peso del lutto dopo quello della violenza.
COME TRE BAMBOLE ROTTE di Letizia Bernazza.
(Articolo pubblicato su www.tuttoteatro.com Anno II - n.6 - 10/02/2001).
Quando gli spettatori fanno il loro ingresso nella sala romana del Teatro Due, gli interpreti de Le luci di Algeri sono già in scena a sipario aperto ed è difficile non rimanere subito coinvolti dall’atmosfera, finemente ricreata dal regista Claudio Frosi, dell’opera di Gianni Guardigli su una delle numerose stragi commesse in Algeria durante il Ramadan. Un acre profumo d’incenso e un buio quasi diffuso avvolgono l’interno di una modesta abitazione dove è riunita una piccola comunità che piange i suoi morti: tre bambini sgozzati dai terroristi islamici senza un perché in una delle tante strade polverose tra Orano e Algeri. Il racconto del massacro prende il via dal pianto soffocato della madre e tutta la messinscena è governata dal tono sommesso di un lungo canto funebre, intriso di una rabbia talmente dolorosa da impedire l’agire disperato dei protagonisti e un loro sfogo verbale. Gesti e parole non servono a cancellare l’avvenuta tragedia che ora si consuma per i vivi sotto il candore di bianche tende e in mezzo a cuscini colorati, candele accese, tappeti sfarzosi, utili soltanto ad accogliere corpi prostrati e distrutti dalla ferocia gratuita di un gruppo di esaltati. Seduta a terra con il volto coperto dal caratteristico ciador, la madre si abbandona al ricordo dei propri figli e, mentre indulge a rammentare i loro tratti fisici non ancora sbiaditi dal trascorrere del tempo, torna alla sua mente l’immagine dei piccoli cadaveri sfigurati. <<Erano come tre bambole rotte>>, ripete a tormentone nel corso dello spettacolo ed è questa frase a sottolineare il peso irremovibile del lutto insieme alle poche battute dell’anziana nonna, la quale vorrebbe addirittura <<diventare muta e sorda pur di non sentire il silenzio della morte>>. Anche lei è accovacciata su una sedia, anche lei parla il linguaggio universale della sofferenza che diventa un grido straziante di dolore quando afferma di voler <<lavare le pietre intrise di sangue e persino il sole che ha visto tutto>>. Alla sua ribellione non sfuggono né gli assassini dei nipoti né Dio, gli uni rimasti impuniti e l’altro indifferente alle ingiustizie del mondo. Il vuoto di sentirsi costantemente orfani di tutto e di tutti è il tratto saliente dei protagonisti della pièce (a vestire i loro panni sono Chiara Di Bari, Silvana Bosi, Isabella Martelli, Maria Monti e Gaetano Varcasia) in cui, non a caso, i dialoghi vengono sostituiti dai monologhi e brevi a solo si alternano ai brani registrati del cantante algerino Kaled o ai ritmi delle musiche arabe tradizionali suonate dal vivo. Due musicisti a lato della scena con tamburi e percussioni scandiscono il tempo dello spettacolo e, nell’evocare luoghi a noi neanche troppo lontani, preparano i successivi interventi dei quattro attori principali sempre sul palco per l’intera durata della rappresentazione. Così, ad esempio, un rullo prolungato di tamburo invita il padre dei tre bambini - fino ad allora rannicchiato sul suolo della claustrofobica abitazione - a intonare il proprio inconsolabile lamento, malgrado egli sia forse l’unico disposto ad illudersi di un possibile riscatto. Mohammed è, infatti, un uomo e il suo ruolo di maschio gli impone di fare altri figli a risarcimento di quelli perduti, laddove nella pièce sembra essere affidato alla donna il compito di contrastare i carnefici. Ci prova la venditrice di granaglie del villaggio (Claudio Frosi e lo scenografo Piero Risani sono molto abili a trasformare lo spazio scenico in un suk pieno di botteghe e di commercianti ambulanti), la quale sbarra le finestre e le porte della propria casa affinché il nipote-terrorista non esca più a uccidere bambini; ci prova il fantasma di Fatima (la maggiore delle tre vittime) che fa la sua sinistra apparizione per scuotere con autentica sincerità la memoria dei vivi prima di ritornare nel regno dei morti sulle note del Requiem di Mozart.
Dalla stampa:
"La storia scritta da Gianni Guardigli racconta una delle terribili stragi che durante il Ramadan deturpano il suolo dell'Algeria, ... , una terra dove si vive e si muore in comunità e dove la comunità è partecipe dei lutti e delle gioie del singolo." (Rossella Fabiani, La stampa)
"Ambientato da Guardigli tra le tende di un'arcaica comunità del deserto questo "Requiem di fine millennio" riguarda anche noi: "Si bagna nelle acque del bacino del mediterraneo, è radicato in un profondo sud povero e sanguigno come era il nostro meridione". (Nico Garrone, La repubblica)
"Un lavoro il cui testo pregevole è il primo degli interpreti, poesia di parole che si susseguono accompagnate da una musica araba tradizionale molto ben eseguita ed appropriata che ne aumenta il fascino" (Diana Palma, Sipario)
"Il primo merito è quello di aver riacceso le luci su Algeri (...) il secondo è quello di aver saputo conciliare con le compatibilità teatrali una tragedia così complessa: rappresentandola nei suoi tratti essenziali, in modo da dare anche allo spettatore meno informato un quadro per capire ciò che sta succedendo in Algeria" (Giuliana Sgrena, Il Manifesto)