Il dramma del mese

Immacolata Concezione di Joele Anastasi
- Scritto da Damiano Pignedoli
- Visite: 4092
Sicilia, 1940.
Giovane silenziosa, mansueta e innocente, Concetta viene barattata dal padre caduto in disgrazia. Per una capra gravida, il genitore la affida a donna Anna: tenutaria del bordello di un paese sfiorato appena dagli echi della seconda guerra mondiale, prossima a deflagrare.
Estranea ai piaceri della carne e a una concezione della vita da adulti, la ragazza non oppone resistenza alcuna a tale baratto. Nessuno le ha mai spiegato cosa voglia dire fare l’amore e, oltretutto, l’espressione le piace fin da subito. E lei, nonostante sia preceduta da un’immeritata nomea di «babba», si conquista in poco tempo una clamorosa fama in tutto il paese, senza che si sappia di preciso come riesca a gratificare di piacere gli uomini sino a farli mirabilmente impazzire. Tanto più che non ce n’è uno di questi che l’abbia mai toccata nella sua stanza al bordello, benché tutti millantino d’aver vissuto favolose prestazioni d’alcova.
Vergine, pura e affrancata dalle malie del giudizio, Concetta ha una capacità tale di sentire l’anima dei suoi clienti da farne emergere e liberare fragilità nascoste, donando loro quello che nessuna persona sa dargli. Ne è sicura, del resto, che fare l’amore significhi – per esempio – giocare a “Un, due, tre, stella!” oppure fare la barba a un cliente frustrato da coniugali avarizie o, altrimenti, offrire il petto alle lacrime del signorotto locale. Sicché non capisce perché il mestiere di prostituta susciti tanto scalpore.
Tuttavia, com’è possibile raggiungere un angolo di paradiso senza pretenderlo per intero? Ogni uomo vuole la giovane completamente per sé, come se fosse un oggetto d’inestimabile valore. E a realizzarne un’appartenenza condivisa, che sia al contempo di ciascuno e della collettività, sarà perciò un avvenimento estremo in grado di renderla una creatura oltre se stessa: capace, nella sua aurea alterità, di elevarsi a simbolo e imprimersi netta nella memoria e nell’immaginario come un’Immacolata Concezione d’indefettibile amore. La quale sfida i limiti condizionanti della società e della storia, affidandone il sincero candore ai tempi che verranno.
«IMMACOLATA CONCEZIONE racconta la potenza e il culto dell’immagine che, arrivando a disumanizzare un corpo vivente per trasformarlo in feticcio, è soggetto alla necessità d’instaurare una relazione fondata sui desideri inespressi del proprio inconscio. Immacolata Concezione è la santa della carne e racconta quale terremoto possa generare l’incontro tra spiritualità e carnalità sul piano della collettività. Gli anni ’40 del secolo scorso rappresentano uno spartiacque essenziale nella storia dell’umanità. L’avvento della seconda guerra mondiale, con tutto quello che ha causato, ha rivelato come l’essere umano stesso sia stato brutalmente reificato e desacralizzato. Da quel momento storico la visione stessa dell’umanità, sia nelle relazioni tra le persone che nel rapporto con il potere, muterà profondamente e il concetto stesso di sacro cesserà di avere una corrispondenza nel piano del reale. La pièce, dunque, mostra il punto di snodo di un sistema sociale in cui le relazioni vorrebbero ancora essere prodotte invece che brutalmente consumate. Sebbene raccontino un mondo in cui può esistere ancora futuro e speranza, contengono già il germe di quella deriva malata che troverà nel conflitto mondiale e nei regimi totalitari una possibilità d’espressione».
Joele Anastasi
Leggi il testo
Il dramma qui presentato è stato messo in scena dallo stesso autore che, peraltro, l’ha interpretato assieme agli attori della sua compagine Vuccirìa Teatro: ovvero Federica Carruba Toscano (alla quale si deve l’idea del lavoro), Alessandro Lui (che ha contribuito alla drammaturgia), Enrico Sortino e Ivano Picciallo. Lo spettacolo IMMACOLATA CONCEZIONE è andato in scena per la prima volta il 7 giugno 2017, al Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno, per il festival I Teatri del Sacro di cui è stato decretato vincitore. Tuttora in tournée e repertorio, vanta le scene e i costumi di Giulio Villaggio, le luci di Martin Palma e la produzione della Fondazione Teatro di Napoli - Teatro Bellini. Informazioni e materiali si trovano sul website “vucciriateatro.com”.
Catanese, classe 1989, Joele Anastasi è attore, regista e drammaturgo. Per approfondire lo studio della recitazione, lascia la Sicilia trasferendosi a Roma dove frequenta l’accademia bilingue d’arte drammatica Link Academy, studiando in italiano e inglese. Nel 2012 è guidato dal «teatrista» argentino Claudio Tolcachir al Laboratorio Internazionale della Biennale Teatro di Venezia e lavora, inoltre, come protagonista in diversi cortometraggi video. Nello stesso anno recita poi nello spettacolo di Silvio Peroni SCENE DA UN GRANDE AFFRESCO, al capitolino Teatro Vascello. A neanche 24 anni d’età, invece, esordisce come autore e regista creando la pièce IO, MAI NIENTE CON NESSUNO AVEVO FATTO, di cui è anche interprete, e che segna il debutto della sua compagnia Vuccirìa Teatro da lui fondata con Enrico Sortino. Il lavoro si fa notare da critica e pubblico, conquistando numerosi riconoscimenti in manifestazioni nazionali e d’oltreconfine. Oltre a questi successi, s’aggiunge la partecipazione come attore a YOU ARE MY DESTINY (Lo stupro di Lucrezia): considerevole produzione teatrale, esito di un laboratorio alla Biennale di Venezia del 2013, della pluripremiata artista iberica Angélica Liddell che avrà un’importante distribuzione internazionale dal 2014 al 2016. Frattanto, è la volta di due sue nuove creazioni drammaturgiche e di regia: BATTUAGE e YESUS CHRISTO VOGUE, rispettivamente del 2014 e del 2015, nelle quali è ancora in scena a recitare insieme ai suoi compagni di Vuccirìa Teatro. Nell’anno a seguire, scrive QUANDO IL SALE NON ERA L’UNICO FIORE: dal dramma poetico LILLENSKOGEN del norvegese Jon Jesper Halle, da cui uno studio scenico di Benedetto Sicca per il festival milanese Tramedautore del 2017. Anno, quest’ultimo, in cui vince il premio internazionale di drammaturgia Eu Collective Plays intitolato al compianto teatrante Matteo Latino; vittoria in linea con la successiva e citata affermazione della sua IMMACOLATA CONCEZIONE al festival I Teatri del Sacro. Attualmente sta lavorando al progetto WE ARE NOT PENELOPE - Sulla fedeltà, in collaborazione con la formazione spagnola Estigma e l’artista portoghese Nuno Nolasco; mentre è proprio di questo maggio 2018 la sua presenza, in rappresentanza dell’Italia, al Festival TransAmerique di Montréal (Québec) per il seminario dedicato a giovani artisti di teatro provenienti da molteplici paesi del mondo.

#AnAmericanDream di Sergio Casesi
- Scritto da Damiano Pignedoli
- Visite: 2399
Teatro a orologeria. Un bolero a Manhattan. Un gioco al massacro costruito su un crescendo che sembra infinito ma che, a ogni giro di giostra, riporta un passato mai passato. Mai condiviso. Mai analizzato.
Scrivendo #AnAmericanDream ho cercato di riflettere sulla società di oggi, sul nostro aspro mondo, dove il concetto di giustizia sociale viene dimenticato per veder diffondersi il più nefasto “farsi giustizia da sé”. Un’epoca, la nostra, che mescola cause ed effetti; che resta in superficie e non coglie mai la complessità delle cose, riaprendo così la strada alla violenza come mezzo politico ed esistenziale.
Mi è stato chiesto perché ho ambientato questo dramma a Manhattan e non a Milano o a Roma. Il motivo è che New York e tutta l’America sono per noi, oggi, luoghi dell’immaginario e del mito: dove eroismo, disparità, fantasia, opportunità e nefandezza dell’animo, possono coesistere e darsi battaglia. Per un europeo, ambientare un testo a Manhattan vuol dire scrivere nell’immaginario collettivo. Vuol dire avere la libertà di affrontare la modernità come si affronta il mito. Si può farlo di sicuro anche con un’ambientazione italiana, ma non per la drammaturgia in questione. Credo che la storia di Tom, Allie, Liv e Albert valga, certo, per ogni luogo; ma sono anche convinto che solo nella nostra America immaginaria i fatti raccontati possono essere percepiti dallo spettatore come veri.
E poi cosa c’è di più mitico del “sogno americano”? Quanti milioni di persone l’hanno inseguito e lo rincorrono ancora oggi? E quanto di quel sogno è entrato nelle nostre vite? Nelle nostre scelte e abitudini? Quanto di quel sogno viene narrato dal mosaico giornaliero delle nostre odierne pagine social?
Eppure “connesso” non vuol dire solo legato, congiunto ad altre parti. Qual è, appunto, il nesso fra i miliardi di persone in contatto su internet? Davvero è sufficiente quello che ci dà il nostro device per non essere soli? Per essere appetibili sul lavoro? Per essere interessanti come persone? E nel nostro pianeta, ora abitato da questi strani alieni, che succede se il nesso è invece qualcosa di atroce o di malvagio? Di indicibile sui social, di indescrivibile se non fra persone vere, occhi negli occhi, mani nelle mani?
Si scopre così di essere all’improvviso troppo piccoli per i grandi e complessi problemi umani. Mentre le persone più sfortunate, esiliate nella propria terra, sono forse sempre in contatto con chi invece – per fortuna o per capacità – si trova in una situazione di privilegio. Ma non c’è vera empatia, non c’è traccia di pietà. Di sicuro nessuna autentica solidarietà. C’è rancore, incomprensione, rabbia, delusione. In sostanza incomunicabilità. Ancora.
#AnAmericanDream non è teatro politico. Vuole essere teatro puro, nuovo, comunicativo, non arroccato su stratagemmi intellettuali velleitari e sterili. Vuole essere un teatro per tutti ma di grande portata: vivo, nutrito dall’immaginario che oggi imperversa nelle nostre menti e ci guida. Per me è importante l’idea di contribuire a fare un teatro del nostro tempo. Con una parola scritta che descriva l’epoca, troppo amara, in cui siamo immersi.
Pertanto ho immaginato e scritto intorno allo scrittore di successo Tom e alla sua compagna Allie che, grazie a un contatto via social network, ricevono una visita nel loro lussuoso appartamento di New York da parte della cugina Liv, appena emigrata con Albert da una città deindustrializzata e impoverita del Michigan.
Un incontro denso di implicazioni e motivi annidati in epoche lontane: giustizia contro ingiustizia, rivalsa contro senso di pietà, pace dell’animo contro vendetta. Nell’esplosione del gioco teatrale, il passato sembra attraversare le coscienze e i cuori dei personaggi travolgendo ogni cosa, legame e situazione.
Ma, forse, non tutto è come appare. Forse una via di scampo, per noi tutti, c’è ancora. Una via creativa alla libertà è ancora percorribile.
Sergio Casesi
Leggi il testo
Dalla motivazione del Premio di Drammaturgia Cendic 2017: «Casesi unisce la velocità e l’essenzialità dei dialoghi a una struttura drammaturgica articolata, complessa, capace di snodi narrativi. #AnAmericanDream è un thriller teatrale che si apre a una dimensione di critica sociale e all’analisi di un’antropologia contemporanea in decadimento e solo apparentemente sorretta da una cornice di formalismo comportamentale. Casesi trasferisce il suo talento di musicista nella scrittura e riesce a rendere di ognuno dei suoi personaggi il “suono” fondamentale, il tono dell’anima. Il Premio Cendic 2017 va a un autore teatrale che possiede un’evidente capacità di controllo della narrazione e una conoscenza dei meccanismi drammaturgici uniti a fantasia narrativa. Il rigore della partitura testuale indica agli attori e al regista, che porteranno in scena lo spettacolo, la strada di un teatro da realizzare con la stessa precisione richiesta da un’esecuzione musicale».
Sergio Casesi (Castelvetrano, Trapani, 1976). Musicista e autore teatrale milanese. Trombettista premiato al Concorso Internazionale Città di Porcia nel 2002 e Premio Speciale della giuria al Concours de Trompette Maurice André di Parigi nel 2003, ha suonato con molte orchestre italiane fra cui quella dell’Opera di Roma, del Teatro alla Scala di Milano e della Rai. Dal 1999 ricopre il ruolo di Prima Tromba presso l’Orchestra Regionale Lombarda, I Pomeriggi Musicali di Milano. Negli anni, la passione per la scrittura teatrale l’ha condotto a creare testi che, oltre a essere prodotti per la scena, sono stati gratificati da una serie di riconoscimenti. Nel 2012, infatti, si è aggiudicato il Premio DoveComeQuando - Giuliano Gennaio, partecipando alla competizione “Nuda Anima” presso il Teatro dell’Orologio di Roma con l’atto unico TRADITORI, messo in scena da Pietro Dattola. Nel 2015 è invece la volta del Premio Pergola per la nuova drammaturgia, grazie al testo PRIGIONIA DI ALEKOS «per la sua evidente teatralità e per come ricollega il passato (recente) della Grecia agli altrettanto, sebbene diversamente, drammatici giorni nostri», come recita la motivazione della giuria presieduta da Franco Cordelli, critico del “Corriere della Sera”. Da tale lavoro ne è derivata una produzione scenica del Teatro della Toscana che ha esordito il 10 febbraio 2018 con la regia di Giancarlo Cauteruccio. È infine del dicembre 2017 la vittoria del Premio Cendic con il dramma #AnAmericanDream, da cui una futura messinscena che debutterà alle Dionisiache del Calatafimi Segesta Festival 2018. La scrittura di Casesi, come l’ha definita un autore della schiatta di Edoardo Erba, è «estremamente intrigante, audace e dallo stile innovativo. L’originalità delle sue storie, l’unicità dei personaggi e la velocità del dialogo sono le sue migliori caratteristiche».

Sempre domenica di Controcanto collettivo
- Scritto da Damiano Pignedoli
- Visite: 3328
Da un passaggio testuale della canzone T’IMMAGINI, incisa da Vasco Rossi nel 1985 per il suo album musicale COSA SUCCEDE IN CITTÀ, i ragazzi del Controcanto Collettivo hanno ricavato il titolo della drammaturgia che state per leggere. Un lavoro di scrittura consuntiva d’assieme, nella fattispecie, di uno spettacolo che è valso al giovane gruppo la vittoria alle finali 2017 della rete teatrale In-Box, primeggiando su un innumerevole stuolo di altre messinscene provenienti da tutta Italia.
Del resto cattura e, battuta dopo battuta, avvolge l’intreccio polifonico tessuto con finezza acuta dal sestetto di attori – Federico Cianciaruso, Fabio De Stefano, Riccardo Finocchio, Martina Giovanetti, Andrea Mammarella ed Emanuele Pilonero – guidati dalla regia cesellatrice di Clara Sancricca (con, dietro le quinte, l’ausilio organizzativo di Gianni Parrella). Un ricamarsi di personaggi percorsi da storie che s’intarsiano vicendevolmente e, altrimenti, si legano per consonanza tematica e d’atmosfere emotive; su cui preme l’alea di un’esistenza stretta nelle incombenze lavorative d’ogni santo giorno, dalle quali essi cercano di trarre l’occorrente per vivere con un minimo di dignità.
Ma l’affaccendarsi intricato di queste figure prese pressoché in diretta dalla realtà quotidiana, a cui paiono fissate su immutabili posizioni, è piuttosto intriso di denso sognare e d’immaginazioni riottose a pensarsi irrigidite e normate per sempre dai soli obblighi, ritmi e ricatti dell’odierno totalitarismo del lavorare.
Dalla pièce scaturisce, allora, un soffio di rivolta a siffatto status quo che non è soltanto esistenziale e privato bensì, in filigrana, pure politico. Un moto di rottura, scarto e trasformativo superamento che sebbene all’apparenza paia risolversi in una serie di scacchi e disillusioni, in verità tiene ben vivo nell’aria il proprio afflato di dirompenza. Il quale, d’altronde, emana ed è reso attraverso un parlato che si accende ampiamente di scambi ed espressioni in cui l’italiano cede il passo a un sapido romanesco, mentre declina una partitura di umorose voci e accorate vicende che si estroflettono in modo acentrico e moltiplicato.
Il risultato è un denso e vivido sovrapporsi; un dinamico rigoglio di aspirazioni, pensieri e viaggi dell’anima tali da disseminarsi, perciò, con fertile espansività nei territori interiori di chi ne incontra l’irrefrenabile canto. Nel quale risuona il germoglio di perseguibili felicità che, invero, non sono fantasie e nemmeno favole: semmai direzioni, ardite vie e senz’altro tosti itinerari di liberazione e crescita.
(dp)
Leggi il testo
Controcanto Collettivo è una compagnia teatrale dei Castelli Romani, nata nel 2010 per volontà e urgenza di una regista trentenne e di un gruppo di giovanissimi attori. Nel novembre del 2011 debutta FELICI TUTTI, un lavoro dedicato al tema dei migranti, con il quale il gruppo approda a un metodo di lavoro e di creazione collettiva della drammaturgia per stratificazione di improvvisazioni successive. Nel giugno del 2013 va in scena NO – UNA GIOSTRA SUI LIMITI DEI LIMITI IMPOSTI: opera ironica e dissacrante dedicata al concetto di divieto che, al Roma Fringe Festival del 2014, vince il premio della critica. L’ultima produzione del collettivo è SEMPRE DOMENICA, spettacolo ispirato al tema del lavoro e vincitore del premio In-Box 2017 (cfr. online “inboxproject.it”), tuttora in tournée.
Controcanto Collettivo è animato da Federico Cianciaruso, Fabio De Stefano, Riccardo Finocchio, Martina Giovanetti, Andrea Mammarella, Emanuele Pilonero e Clara Sancricca. Informazioni sulla sua attività e spettacoli si trovano al link “facebook.com/collettivo.controcanto”.
Nella foto da sinistra: Clara Sancricca, Andrea Mammarella, Emanuele Pilonero, Federico Cianciaruso, Martina Giovanetti, Fabio De Stefano, Riccardo Finocchio.

40 gradi di Andrea Maria Brunetti
- Scritto da Damiano Pignedoli
- Visite: 2907
Quaranta sono i gradi della vodka e quaranta, sotto zero, sono i gradi a cui scende la temperatura nella provincia russa, dove due attori malandati – maltrattati da se stessi e dalla vita – stanno mettendo in scena uno spettacolo: il MACBETH di William Shakespeare.
Siamo negli anni Novanta del secolo scorso, subito dopo la Perestrojka: fallita miseramente, prima ancora che si capisse in cosa consistesse la “ricostruzione” che annunciava. I russi hanno vissuto solo la distruzione e la caduta del loro mondo, del loro pur stentato standard di vita. La ricostruzione non l’hanno mai vista, non certo in quel decennio. Ma l’aspettavano, e la aspettavano colmi di quella speranza quasi mistica, di un idealismo quasi ossessivo che è il tratto dell’anima russa.
Questo, volevo catturare.
E allora, negli anni Duemila, ho avuto modo lavorare alla messinscena di un mio testo a San Pietroburgo, dirigendo un attore di nome Sacha Ronis: alcolista, ex primattore bello e famoso, un tempo insignito della medaglia di “Attore popolare dell’Unione Sovietica” che non mancava di ricordare dopo ogni bevuta, con un guizzo di autentica dignità teatrale. La quale, in Russia, è importante: specie se attestata dal riconoscimento governativo. Durante le prove, tuttavia, Sacha mi raccontava come negli anni Novanta il teatro in cui lavorava – l’Alexandrinskij, se ben ricordo – lo pagasse con cento uova al mese. Salario proteico. Ed è da quel racconto che s’è originato il mio lavoro di creazione del dramma che state per leggere.
In seguito ho letto lo scrittore sovietico Aleksandr Valentinovič Vampilov, autore di 20 MINUTI CON UN ANGELO: testo non tradotto in Italia, ma talmente bello da colpirmi subito. Anche perché nel frattempo avevo in testa Samuel Beckett, soprattutto il suo FINALE DI PARTITA, e avevo notato che nei personaggi sovietici di Vampilov c’era qualcosa di assurdo e apocalittico esattamente come in quelli di Beckett, però con un sapore diverso: non algido, elegante e britannico bensì sporco, povero e ubriaco, alla russa. E poi c’era San Pietroburgo: il suo mondo teatrale e specialmente le persone che, giorno dopo giorno, iniziavo a capire e con le quali passavo notti estenuanti a bere, a parlare e ancora a parlare. Loro, d’altronde, sono davvero la società della conversazione: sempre bevendo, sempre in cucina, o con tè o con vodka o con entrambi. E spesso i racconti che venivano fuori sugli anni Novanta, riguardavano la criminalità che si era impadronita del vuoto rimasto in cui galleggiavano tutti.
Scrivendo quindi 40 GRADI, probabilmente la mia intenzione era quella di mettere insieme tutte queste sensazioni e scoperte che ho sopra evocato: quasi volessi fermarle in una specie di album fotografico o, comunque, fissarle in qualcosa che avrei potuto prendere e portarmi via. Perché sapevo che un giorno me ne sarei andato da quel posto: in cui bisognava stare, succhiandone il più avidamente possibile, e fuggire.
Andrea Maria Brunetti
Interpretato da Fabio Banfo, Luigi Guaineri e Roberto Testa, diretti dallo stesso autore, 40 GRADI è andato in scena per la prima volta al Teatro Libero di Milano il 5 ottobre 2017, (recensito su questo sito) per la produzione di Effetto Morgana. Una pièce con «momenti di forte tensione» – come ha scritto l’insigne slavista Fausto Malcovati su “Milano in scena” – che il drammaturgo e regista «costruisce sui suoi tre interpreti, davvero intensi, convincenti».
Leggi il testo
Andrea Brunetti vive e lavora a Milano: città dove si è diplomato in Drammaturgia alla Civica Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi e in Regia alla Scuola d’Arte e Mestieri del Teatro alla Scala. Nel 2006, ha vinto il Premio Flaiano per MALAMORE: testo messo in scena in Germania e al Teatro Lensoveta di San Pietroburgo, in Russia, laddove ne ha curato anche la regia. Nella metropoli baltica, inoltre, ha lavorato come pedagogo presso l’Accademia Nazionale di Teatro Drammatico. Tra gli spettacoli da lui scritti e diretti, lavorando in sodalizio con Fabio Banfo e Paolo Andreoni, si ricordano: NAPOLEONE; UBU ROI dalla commedia patafisica di Alfred Jarry; e FAUST dal dramma di Christopher Marlowe. Oltre a questi lavori, tuttavia, vanno menzionati quelli che ha dedicato a taluni grandi autori del Novecento come Samuel Beckett, dirigendo FINALE DI PARTITA e GIORNI FELICI; Bernard-Marie Koltès, da cui una sua messinscena di LOTTA DI NEGRO CONTRO CANI; e Albert Camus, di cui ha riscritto teatralmente il romanzo LO STRANIERO. Le sue rappresentazioni si sono tenute in molteplici teatri e festival italiani e stranieri mentre, negli anni, all’attività teatrale ha affiancato anche quella di regista pubblicitario. È autore dei romanzi NAGOTT, pubblicato presso l’editore Persico Europe di Cremona nel 1997, e L’AMORE MALE DETTO edito nel 2008 per i tipi romani del Gruppo Albatros Il Filo.