Il dramma del mese

Stava la madre di Angela Demattè
- Scritto da Damiano Pignedoli
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Quando Sandro Mabellini mi propose di lavorare sullo STABAT MATER di Jacopone da Todi – per il festival I Teatri del Sacro 2013 di Lucca – non sapevo affatto dove saremmo arrivati.
L’aspetto musicale era quello che interessava maggiormente Sandro. Sapeva già chi coinvolgere: Giulia Zeetti, straordinaria cantante e attrice; e Antonia Gozzi, bravissima musicista, colta e ironica. La terza sul palco avrei dovuto essere io, come attrice e cantante. Sandro è un regista che agisce libero, guidato da forti suggestioni e pochi limiti. Dunque, io cominciai a indagare la materia liberamente.
La cosa che mi colpì nel testo di Iacopone fu la sua implorazione alla Madonna: egli chiede a Maria di farlo partecipare al suo dolore e al dolore di Cristo. Questa cosa la avvertii come scandalosa, assolutamente lontana dal sentire di oggi. Durante le mie ricerche decisi di chiamare Ambrogio Sparagna, prezioso musicista ed etnomusicologo, oltre che amico, che avevo conosciuto qualche tempo prima. Mi raccontò della curiosità di uomini e donne giovanissimi per il repertorio popolare, come se questi ragazzi avessero bisogno di ritrovare una matrice, una storia, un’origine.
In quei giorni entrai in una chiesa. Stranamente alcuni gruppi folkloristici erano presenti, con i loro costumi sgargianti. Evidentemente celebravano qualche anniversario. Pochissimi di loro erano interessati alla messa. Pensai a quanti gruppi, confraternite, cori, associazioni di matrice cattolica dovevano esistere in Italia ma quanto la loro origine religiosa fosse spesso smarrita. Ora non so esattamente cosa fece scattare quell’intuizione che trasformò in forma scenica e drammaturgica l’indagine che volevo fare. Sicuramente una certa necessità di ironia. Ma credo che il cortocircuito creato da segni quotidiani e contemporanei, accostati a simboli sacri e antichi, abbia acceso la miccia. Il fatto che il dolore oggi sia un nuovo tabù, per esempio, si tradusse nella mancanza del volto di Cristo crocifisso in scena. Di esso si vedono solo i piedi, come a voler censurare tutto il resto. Ma anche a volere impedire la possibilità di compartecipare quel dolore.
Due donne, scelte tra le tante di un coro popolare del centro Italia, sono chiamate a cantare qualche canzone in un improbabile set di un film americano. Esse cercano, inconsapevolmente, un’identità profonda. Ho lasciato che i personaggi fossero guidati dai cortocircuiti di cui parlavo prima. È un micromondo fatto di Marie, croci, facebook, dolore, amore, verginità, rosari fosforescenti… Sembra che non si possa trovare una profondità sensata persi come siamo nell’aridità dei simboli religiosi e nella vacuità degli amori da social network. Ma questo è ciò che pensano gli americani, i quali non conoscono dove sprofondano le radici dell’Italia e non conoscono quanto le viscere delle donne possano compromettersi. L’epilogo è una domanda di senso che, giustamente, Sandro ha voluto rappresentare come una voce sola, un coro disperante che nella musica trova una possibilità di consolazione.
Come ci ha raccontato Ambrogio, in quella settimana di ricerca, ospiti a casa sua, mentre ci cucinava il pesce: la condivisione del dolore era l’unica salvezza per il popolo e la musica si fa strumento di questa possibilità.
Dunque, credo, mancherà alla lettura la musica di Ambrogio, la presenza viva e musicale di Antonia, il canto di Giulia e mio. Spero sia comunque bello leggerlo e che qualche cortocircuito avvenga comunque.
Angela Dematté
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Prodotto dal Beat 72 di Roma, lo spettacolo dal dramma STAVA LA MADRE è andato in scena per la prima volta a Lucca il 13 giugno 2013, grazie alla vittoria del bando dei Teatri del Sacro. Diretto da Sandro Mabellini, responsabile pure delle scene, è interpretato da Giulia Zeetti nel ruolo di Maddalena e Angela Dematté in quello di Maria. Con loro, sul palco, Antonia Gozzi che ha curato le musiche eseguendole anche dal vivo. Le canzoni presenti nella pièce sono tratte dal repertorio popolare, di cui tre (E ME NE VOGLIO ANDARE, MADRE MARIA, LA PRIMA VOLTA CHE M’INNAMORAI) sono state scritte e donate da Ambrogio Sparagna.
«Alto e basso, rozzo e sublime, colto e consumistico. Lo SABAT MATER di Jacopone da Todi attraversa i telefoni cellulari delle protagoniste, le canzoni popolari si intrecciano a sonorità sintetiche live, i piedi di un Cristo crocifisso incombono sulle attrici che passano senza posa, con magistrali micro variazioni del corpo-voce, dall’esilarante al tragico». (Michele Pascarella da “Hystrio”, n. 3, 2014, p. 77)
Angela Dematté. Nata a Trento nel 1980, laureata in Lettere Moderne all’Università Statale di Milano, nella stessa città si diploma all'Accademia dei Filodrammatici nel 2005. Quattro anni dopo inizia la sua attività di drammaturga e con il suo primo testo, AVEVO UN BEL PALLONE ROSSO, vince il 50ˆ Premio Riccione e il Premio Golden Graal Astro Nascente per il Teatro. Ne scaturisce così, nel 2010, la corrispondente messinscena di Carmelo Rifici, con il quale inizia un rapporto di fertile collaborazione che dà alla luce altri spettacoli: L’OFFICINA – STORIA DI UNA FAMIGLIA nel 2013, prodotto come il precedente dal Teatro Stabile di Bolzano; il progetto CHI RESTA, scritto con Renato Gabrielli e Roberto Cavosi (produzione Proxima Res, 2013); CLITENNESTRA O LA MORTE DELLA TRAGEDIA, per Elisabetta Pozzi e prodotto nel 2015 dalla Fondazione Teatro Due di Parma; IL COMPROMESSO, creato di recente per gli allievi dell’Accademia dei Filodrammatici. Con lo stesso regista è inoltre al lavoro sul progetto IFIGENIA, LIBERATA per il LAC di Lugano e il Piccolo Teatro di Milano. Altri testi messi in scena sono: STRAGIUDAMENTO e LUNGH ’ME LA FABRICA DEL DOMM (regie di Andrea Chiodi del 2011 e del 2015); NEL VENTRE DELLA GUERRA, per Massimo Popolizio e la produzione di Pergine Spettacolo Aperto (2014); GUIDA ESTREMA DI PUERICULTURA_14_15, scritto con Francesca Sangalli (finalista al Premio Dante Cappelletti e diretto da Renato Sarti per il Teatro della Cooperativa nel 2015). Infine, oltre ad aver vinto il Premio Scenario 2015 con il progetto MAD IN EUROPE, il suo lavoro è stato pubblicato in Italia da Editoria & Spettacolo e in Francia da Les Solitaires Intempestifs; mentre J’AVAIS UN BEAUX BALLON ROUGE è andato in scena per un quadriennio in Francia, Svizzera, Belgio e Lussemburgo, diretto da Michel Didym e premiato poi col Palmarès Coup de Coeur per gli interpreti Richard e Romane Bohringer. Diversamente, come attrice, lavora in teatro con Mimmo Cuticchio, Bano Ferrari, Vittorio Possenti, Peter Clough, Bruno Fornasari, Walter Pagliaro, Pietro Carriglio; e al cinema con Toni Trupia, Giovanni Calamari, Matteo Ricca, Daniela Persico, Sergio Fabio Ferrari.

E avrà i tuoi occhi di Michelangelo Bellani
- Scritto da Damiano Pignedoli
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La drammaturgia che leggerete nasce dalla suggestione mai del tutto manifesta di una storia mitica: quella biblica di Abramo e Isacco. Una storia odiosa. Come può, infatti, un padre accettare di essere l’assassino del proprio figlio?
Eppure secondo Kierkegaard quest’atto – scandalo della ragione – sarebbe l’atto di fede più sublime e perfetto proprio perché, contrariamente a un eroe tragico, la scelta di Abramo è priva di qualsiasi piedistallo etico. La sua è, perciò, una fede assoluta e indipendente.
In questa scrittura drammatica i personaggi Abramo, Isacco e Sara sono contemporanei. Sono realistici ma non reali. Le situazioni narrate, invece, sono reali ma non realistiche: nel senso che perseguono l’autenticità di un sentire e non la verosimiglianza di una circostanza.
Abramo è un professore universitario alla fine della sua carriera, un intellettuale engagé di una certa fama che ha difeso gli ideali della lotta al potere e ha cercato anche di trasferirli nella sua vita personale. Nel nido che ha costruito con amore per sua moglie e suo figlio irrompe, però, una realtà del tutto fuori controllo.
Isacco, nato alla fine degli anni Settanta, è diventato un eroinomane che vive per strada e nei suoi deliri recita Bertolt Brecht. È stato influenzato dall’educazione e dai numerosi testi scritti dal padre, decide però di spingere il suo pensiero fino agli esiti più estremi dell’autodistruzione.
Sara è una madre/moglie che non ha amato il marito tanto quanto è stata amata o, forse, non ha amato con quella pressione narcisistica che spinge a riconoscere i propri sentimenti senz’ombra di dubbio. Anche per lei l’autenticità è un’esperienza di soffocamento, così come l’amore per suo figlio: un imperativo morale che la conduce, in un estremo atto d’amore, a essere l’artefice della sua condanna.
Lo scontro generazionale è il tema. Ma non uno scontro che conduce all’affermazione di una generazione su un’altra. Qui lo scontro generazionale si consuma al tramonto di un’epoca in cui tutti, anche se in modo diverso, sembrano sconfitti allo stesso modo.
Lo scontro emblematico fra il padre Abramo e il figlio Isacco è uno scontro di due fallimenti: quello di chi ha “creduto” – nell’evoluzione, nel miglioramento delle condizioni di vita – e quello di chi non è riuscito a credere in nulla, causa la sensazione irriducibile di credere in qualcosa di sbagliato. Da questo punto di vista, la famiglia tanto quanto la strada rivelano la medesima indifferenza.
Infine, una riflessione generale sul complesso della mia scrittura teatrale.
Nata all’interno di un percorso di compagnia piuttosto autoctono, e quindi molto legata alle presenze umane con cui ho lavorato in questi anni, è stata inevitabilmente influenzata da una formazione filosofica. E la compagnia che ho fondato, La società dello spettacolo (www.lasocietadellospettacolo.org), all’inizio ha orientato la sua ricerca verso la riscrittura scenica di opere filosofiche e sociologiche a partire proprio dal famoso saggio di Guy Debord da cui prende il nome, componendo quindi una trilogia dedicata alla filosofia francese contemporanea, ispirata a figure quali lo stesso Debord, Jean Baudrillard e Maurice Merleau-Ponty.
Ero, e sono convito, che la parola filosofica e la parola teatrale abbiano una stessa sotterranea vocazione di offrirsi come parola pubblica e che dunque non sia un’operazione impropria quella di mettere in scena la Filosofia. Ma i miei esperimenti hanno soprattutto risentito di un’altra esigenza eretica: quella cioè di far emergere, del pensiero, non tanto il rigore logico/argomentativo quanto la sua eleganza. Ho tentato quindi di trarre dalla parola filosofica una parola di poesia.
Attualmente, com’è naturale, questa ricerca sta evolvendo verso nuovi ambiti ma di cui non so ancora distinguere i tratti.
Michelangelo Bellani
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Michelangelo Bellani. La sua visione artistica è influenzata, fin dall'infanzia, dal contatto con il regista Michelangelo Antonioni del quale il padre Enrico è aiuto regista; e da subito comincia un rapporto infedele con la scrittura, giocando con una macchina da scrivere modello Olivetti lettera 92. Si laurea in Filosofia all'Università di Perugia con una tesi su Pasolini e Debord dal titolo ESTETICA DEL TEMPO REALE. Nel 1997 fonda – con Marianna Masciolini e un manipolo di amici – la compagnia giovanile Olt, residente presso il Teatro Subasio di Spello (Perugia), di cui cura per un biennio la programmazione. Nel 2000, per la messa in scena della sacra rappresentazione LA SCALA DELLA BUONA NOVELLA di Nilo Negroni, collabora con il “Premio Oscar” Carlo Rambaldi. Ha lavorato come aiuto regista, attore e regista in documentari, cortometraggi e film. Ha pubblicato i saggi L'ESTETICA DELLA PRESENZA e LA CARNE DELL’IO O LA SCRITTURA DELL’INVISIBILE in “Davar”, annuario filosofico a cura di Anna Giannatiempo Quinzio, edito a Reggio Emilia da Diabasis nel 2008. Con C. L. Grugher e Marianna Masciolini fonda e dirige, dal 2007, La società dello spettacolo: gruppo umbro di ricerca teatrale (di cui fa parte dal 2012 anche Caroline Baglioni) che ha all’attivo diverse produzioni d’arte, cinema e teatro, gratificate di numerosi riconoscimenti in festival nazionali e internazionali (Premio Independents ArtVerona 2014 per PRESENTE, Premio Umbria in celluloide PerSo Film Festival 2015 per SÒCCANTARE, Premio Scenario per Ustica 2015 e In-Box Blu 2016 per GIANNI). IO SONO NON AMORE è l’ultimo testo rappresentato dal gruppo nel 2016, scritto da Bellani e ispirato all’esperienza della mistica umbra Angela da Foligno.

Figlie d’Egitto di Sofia Bolognini
- Scritto da Damiano Pignedoli
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Quello che leggerete è uno studio sull’antica trilogia tragica di Eschilo. Strutturato in quattro capitoli, vuole esserne una sintesi, un rimescolamento, una ricostruzione per frammenti, una reinterpretazione poetica.
Rispetto alla tragedia classica, l’ordine degli eventi è stato invertito. Le Supplici sbarcano sulla spiaggia di Argo dopo aver ucciso i propri mariti, non prima. Esse dunque scappano dalla pena di morte, non dalle nozze.
Il linguaggio è un tessuto di sperimentazioni e innesti. L’impianto generale procede per scansioni ritmiche solenni rispettando la sonorità classica. Alcune citazioni particolarmente efficaci dell’opera antica sono state inserite organicamente nel testo, opportunamente segnalate da asterisco. Non mancano innesti moderni, volutamente isolati e stridenti, pensati per disarcionare di colpo l’orecchio dello spettatore.
È un’indagine sul conflitto tra Oriente e Occidente, sintetizzati nelle figure del Principe d’Egitto e del Sovrano di Argo. Figure archetipiche, protagoniste di uno scontro sleale e fratricida. Argo è industriale, democratica, senza dèi. Egitto è brutale, integralista, tirannico. Con la stessa violenza combattono per il dominio economico sul mondo: fra giacimenti di petrolio che compaiono anacronisticamente nella pièce assieme a cacciabombardieri e smartphone, confondendo epoche storiche, rimescolando gli eventi.
È uno studio sul conflitto di genere, sintetizzato in chiave filosofica. Il rifiuto delle nozze e l’uccisione dei propri mariti significano l’impossibilità del riconoscimento all’interno di una cultura maschilista e imperialista, fondata sul possesso e sull’oggettivazione del mondo (in questo caso, del corpo femminile). Il maltrattamento delle donne che nel testo subiscono le peggiori umiliazioni tanto in Egitto quanto in Grecia, è stigmatizzato in una denuncia filosofica che oltrepassa i confini di genere. Di contro al capitalismo dell’Io e alla lotta per la supremazia, si auspica il ritorno a una visione più mite del mondo, basata sul rispetto reciproco, la coappartenenza e la cura: della madre verso il figlio, della terra verso gli uomini. Ovunque esiliate e respinte, Le Supplici non sono più donne, ma ideali. Non portano frasche d’ulivo, ma una nuova visione del mondo. La Corifea diviene simbolo archetipico della Concordia tra gli uomini, fertile grembo che partorirà l’ultimo Dio. Come una sorta di Madonna pagana, attraversa le terre cercando il luogo adatto per dare alla luce suo figlio. Senza riuscirvi.
Sofia Bolognini
Dramma vincitore del Premio Cendic Segesta 2016, con la seguente motivazione della giuria presieduta da Maria Letizia Compatangelo: «un testo compatto, organicamente strutturato, appoggiato su modelli drammaturgici focalizzati sul gender, che riesce, seppur attraverso una struttura formale e ritmica per così dire classica, a reinterpretare il mito senza perdere la forza originaria dei grandi tragici e a proporre temi contemporanei quali il conflitto tra Oriente e Occidente, il corpo della donna come luogo di guerra e sopraffazione e il confronto/scontro tra due tipi contrapposti di potere.
Un’opera nella quale l’antico favolistico e l’allusiva contemporaneità mediatica si amalgamano quasi sempre con equilibrio. Un testo che ben si adatta ad essere rappresentato nel teatro greco di Segesta senza stravolgerne il forte impianto scenografico naturale, puntando sulla parola, sul lavoro degli attori e le relazioni archetipali tra i personaggi».
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Sofia Bolognini. Laureata in Filosofia presso la Sapienza Università di Roma, attualmente iscritta al corso di Laurea Magistrale in Teatro Cinema Danza e Arti Digitali, si è diplomata in Regia Teatrale presso l’Istituto Teatrale Europeo. Nata ad Ancona, vive a Roma dove lavora come attrice, regista e drammaturga. La sua formazione non accademica ha seguito negli anni un iter molto personale al fianco di alcuni maestri come, tra gli altri, Eugenio Barba, Mamadou Dioume, Hal Yamanouchi, Stefano Benni, Rodolfo di Giammarco e la compagnia teatrale Motus. Insieme al compagno Dario Costa fonda il collettivo di arti performative Bologninicosta (bologninicosta.com), i cui spettacoli ROMEOEGIULIO e LA CATTIVITÀ sono andati in scena nel 2016 su numerosi palchi italiani ed esteri, guadagnando premi e riconoscimenti. Appassionata di scrittura fin da bambina, pubblica il suo primo romanzo ALBA NUOVA (edito da L’orecchio di Van Gogh, Ancona 2009) all’età di sedici anni. Nell’ambito della drammaturgia sperimenta forme, intrecci e linguaggi. Si aggiudica la vittoria al Premio Cendic Segesta 2016, con il testo FIGLIE D’EGITTO OVVERO LE SUPPLICI; ed è tra i cinque selezionati di NdN - Network Drammaturgia Nuova 2016-17, condotto da Massimo Sgorbani, con il testo ODISSEA PUNTO ZERO.

Loro di Maurizio Patella
- Scritto da Damiano Pignedoli
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Il progetto LORO prende spunto da un fatto di cronaca. Una notte del dicembre ’78, la guardia giurata Piero Zanfretta, durante un giro di ispezione in alcune ville dell’entroterra ligure, incontra coloro che, a suo dire, sono «esseri enormi, alti circa tre metri».
Nell’arco di circa due anni le sparizioni saranno undici.
Il caso Zanfretta è un caso di rapimento alieno o “abduction”.
Siamo abituati a considerare questi fenomeni, e l’ufologia in genere, come pura fantascienza. E gli “addotti” alla stregua di mitomani. Il caso Zanfretta possiede tutte le caratteristiche per entrare nella statistica. Ciò che lo differenzia sono le decine di testimonianze, i titoli in prima pagina, carabinieri, televisione, il coinvolgimento dell’intera Genova. Elementi veri, reali. Inquietanti.
Ma, al contempo, palpita la caricatura da film di serie Z. Tra inseguimenti nella notte, nuvole d’oro, colpi di pistola e urla; tra sedute ipnotiche, robot in incognito e motorette volanti, ci sono questi alieni goffi, troppo goffi: loro e un demenziale progetto di colonizzazione terrestre. Loro e i genovesi, in un incontro impossibile. Sullo sfondo, l’Italia alla fine degli anni Settanta. Ingenua, piena di speranze. Ma anche falciata dal brigatismo, dalla lotta armata, dalle bombe.
Credo che le storie sugli ufo siano le uniche – insieme a quelle di fantasmi – che oggigiorno appartengano ancora alla più pura oralità, alla tradizione, al fantastico primitivo. Al mito. Le uniche che mantengano la loro potenza evocativa, solo se raccontate. Le uniche in grado di restituirci un senso di meraviglia ancestrale che la cultura del nuovo millennio, e il disimpegno dilagante, il consumismo, tentano di spazzare via.
LORO nasce, quindi, dal paradosso: fantascienza e mito, insieme. Da un esperimento: cosa accade ad affiancare il linguaggio del “cunto” col rigore del documentario? Da una domanda oziosa, dirompente: se l’evento più sconvolgente della storia dell’umanità fosse davvero avvenuto nel “posto” più sbagliato della storia dell’umanità (cioè Genova)?
Il testo qui proposto è quello finalista al Premio Riccione 2013, insignito della menzione speciale “Franco Quadri”. Per me ha rappresentato il nucleo di un progetto di più ampio respiro in cui, confrontandomi con la messa in scena, ho tarato la parola scritta col gioco teatrale.
Maurizio Patella
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La nostra recensione di Maria Dolores Pesce
«A partire da questa materia incandescente, Maurizio Patella dà vita a un monologo appassionato e partecipe, capace di coniugare virtuosismo stilistico e ricchezza di affabulazione. Nel ripercorrere le avventure ilaro-tragiche di Zanfretta, senza trascurare un sempre utile confronto con il presente, la ribalda vitalità dell’io monologante si concretizza in un linguaggio plastico e teatralissimo che erompe in una sintassi frenetica, tramata di ripetizioni esasperate: il risultato è una macchina scenica funambolica in grado di dare una ferma e convincente unità all’abbondanza di ingredienti e spezie».
(dal Verbale della Giuria del Premio Riccione per il Teatro 2013)
Un testo teatrale da cui – col sostegno di Scarlattine Teatro e Kilowatt Festival – lo stesso aut-attore ha dato vita a una messinscena da lui recitata e che tuttora continua a girare per numerosi teatri e rassegne d’Italia. Per informazioni e per consultare materiali vari, si vedano i siti web “mauriziopatella.blogspot.it” e “lororapimentoalieno.blogspot.it”.
«Uno spettacolo che sarebbe bello anche se visto da dietro. Chapeau.» (Francesco Chiaro, da “persinsala.it”, 21/02/2016)
Maurizio Patella (Genova, 1975), nel 2001, si diploma attore presso la Civica Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano. Tra le tante collaborazioni, ha lavorato con Sipario Toscana, Teatro Gioco Vita e Teatri di Vita, venendo più volte candidato per i Premi Ubu per il Teatro come Miglior Attore under 30. Col racconto CRANIATA TERRIBILE ha vinto il premio Subway Letteratura 2009, venendo così pubblicato e distribuito in quattro milioni di copie in tutte le metropolitane d’Italia. Nel 2010, il racconto PICCOLA DEA CON LE EFELIDI è finalista al Premio Lama e Trama. Col monologo LORO si aggiudica invece la menzione speciale “Franco Quadri” al Premio Riccione per il Teatro 2013.