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Lo spettacolo del regista messinese Roberto Bonaventura, “Mamma, piccole tragedie minimali”, testo di Annibale Ruccello (del 1986), produzione della compagnia “Il castello di Sancho Panza” con in scena il solo Gianluca Cesale (solido e molto bravo), non è soltanto uno spettacolo interessante, netto nel disegno registico e ben realizzato ma è, soprattutto e sotto diversi profili, uno spettacolo fecondo come se ne trovano pochi nel contesto vivo dell’attuale ricerca teatrale. Proviamo a spiegare: intanto è apprezzabile la scelta di misurarsi con un testo della migliore drammaturgia italiana del secondo novecento, non solo perché essa dà (quasi automaticamente) spessore alla messinscena, ma perché consente ad artisti (e pubblico) di crescere e respirare confrontandosi con un congegno drammaturgico perfetto e sperimentato (inutile ribadire ulteriormente la grandezza artistica di Ruccello) e con un mondo poetico “altro” rispetto ad un’autorialità spesso raggiunta superficialmente e con scarsa consapevolezza; poi perché permette a piccole compagnie di questo tipo di costruire, passo dopo passo, un solido repertorio da utilizzare in tempi lunghi e nelle varie situazioni in cui sono chiamate a operare (coi tempi che corrono, si tratta di un requisito assai raccomandabile); infine perché lavorare su buone drammaturgie consente, specialmente agli interpreti, di affinare una pratica attoriale (capacità comunicativa e di lettura e comprensione dei testi, presenza scenica, gestione di corpo e voce, ritmo) che non è affatto superata laddove si voglia costruire un percorso artistico autentico. Nel merito di questo spettacolo, che s’è visto il 28 gennaio sorso nello spazio Zo di Catania, si tratta di quattro brevi atti unici femminili (quattro Marie per un solo attore) d’ambiente, colore e persino profumo popolari e di vivacissima lingua napoletana in cui s’intrecciano inestricabilmente capacità di lettura di episodi, storie e ambienti, solo apparentemente banali (minimali recita il titolo) o bassi della realtà e ironia divertita, profondità politica e cultura teatrale vera (e d’alta scuola), affettività viscerale, materna, ancestrale e, seppur repressa, inaudita ferocia, leggerezza surreale e quasi fiabesca (un vero gioiello il primo monologo in cui Catarinella viene mangiata da un Orco) e comicità corrosiva - guai a toccare le mamme in Italia -, pulizia del disegno registico e musiche appropriate e tuttavia straniante nel loro iperrealismo (a curarle è Orazio Corsaro) ed ancora, su tutto, la vertigine continua e amara dell’alienazione, della follia, della tragedia che davvero sa parlare al pubblico, che dà sapore al tutto e fornisce la misura esatta della grandezza del testo di Ruccello e dell’intelligenza d’arte con cui è stato riproposto.