Pin It

Un uomo ci osserva dal palcoscenico. Cammina avanti e indietro e ci osserva diretto, negli occhi, mentre ci accomodiamo. Su un lato del palco un uomo con un violino in mano. Si potrebbe definire il protagonista un osservatore del mondo, della società. “Pièce plurivocale d’ispirazione autobiografica”,

così viene definito questo spettacolo: BASTAVAMO A FAR RIDERE LE MOSCHE, con Sergio Longobardi, il clown osservatore, e Michael Nick, il musicista, in scena dal 6 al 9 febbraio presso Il Teatro Stabile d’Innovazione Galleria Toledo di Napoli. La regia è affidata allo stesso Longobardi con la complicità di Mirko Artuso e Costantino Raimondi. Un clown napoletano va a Parigi. Storia autobiografica da emigrante in una città che di solito non è amata, a primo impatto, dai nostri connazionali, se non per il turismo romantico o artistico. Il distacco dalle fondamenta, rappresentate dal padre, proiettato in un video attraverso delle “conversazioni” amatoriali, sul fondo del palcoscenico, rappresenta uno sradicamento doloroso, soprattutto se si parla di un emigrante che va alla ricerca della sua arte. Il clown-osservatore, così ci piace ormai definirlo,  osserva la società dall’alto della sua finestra parigina. Quella Parigi che ricompare stampata sul dorso della valigia, oggetto-compagno di palco, da cui fuoriescono ricordi, oggetti e artifizi da clown. La Parigi in cui certe cose che a Napoli non sorprendono più, sono ancora motivo di stupore indignato. La vita del protagonista è un racconto mimato: all’inizio la voce registrata, come quella di un cantastorie lontano, si sovrappone alla gestualità da artista circense, che ridicolizza il momento della conversazione tra emigrato e uomo di potere. In effetti, tutta la costruzione di questo racconto è basata sull’ironica espressione mimica e scenica che potrebbe avere un clown. L’idea iniziale sembra essere quella della “pagliacciata” universale che coinvolge tutta l’umanità, passando da una visione macrocosmica a quella microcosmica della politica napoletana tra anni ’80 e ’90. La solitudine, il silenzio, l’incidente e la menomazione scandiscono, in un racconto disarticolato, la vita di questo artista.  La sua narrazione sembra poi piombare, ripetutamente, sulla metafora dell’artista povero, materialmente e spiritualmente, a causa della società ingrata. La magia creata all’inizio, grazie all’effetto della recitazione- mimata, va perdendosi via via per un eccesso di realismo, che porta l’attore a comunicare direttamente con il pubblico mentre recita, rompendo quindi la linearità del racconto, perdendo ripetutamente qualche parola, o rendendo la recitazione eccessivamente naturalistica. Questi elementi contrastano poi con l’inserimento delle frasi pronunciate in tedesco dal musicista e proiettate sul fondo della parete,  su cui possiamo leggere evidenti riferimenti all’umanità, alla vita, al mondo. Il contrasto, dunque, tra realtà e universalità perdura durante tutto lo spettacolo, fino a perdersi definitivamente alla fine, quando trionfa il realismo a tutto tondo. L’attore scende dal palcoscenico, ad applausi conclusi, per baciare la madre presente in platea.  Non condividiamo questa scelta eccessiva ma sottolineiamo alcuni aspetti interessanti all’interno dello spettacolo. L’attore “mima” l’incidente subìto e il periodo di coma, mostrando (ancora una volta realisticamente), la malformazione alla mano: poco prima, però, sul fondo del palco, una parete grigia accoglie i suoi movimenti e le sue forme stilizzate, mostrando una proiezione del momento dell’incidente. Anche la ricerca sonora, originale, angosciante, tecnologica e dissonante, colpisce lo spettatore, nonostante i volumi eccessivi che infastidiscono il pubblico seduto nelle prime file. La sensazione conclusiva è che l’autore-attore abbia voluto riversare in questo spettacolo il profondo dolore delle esperienze vissute ma il legame con il vissuto porta in scena un contenitore istintivo e disordinato di elementi profondi e radicati. Un collage di brandelli di vita che sembra desiderare un ordine mai dato, proprio perché non vuole essere lineare ma libero. Unico punto fermo è proprio il riferimento al padre, motivo ispiratore ed elemento di dissenso sulle scelte del figlio. Ecco, quindi, l’origine del contrasto tra evoluzione ed involuzione, tra ordine e disordine, tra magia ed eccessivo realismo.

BASTAVAMO A FAR RIDERE LE MOSCHE
Teatro Stabile d’Innovazione Galleria Toledo Napoli
6-9 febbraio 2014
Compagnie Babbaluck /Theatre du Parc de la Villette
testo di : Sergio Longobardi
Traduttori: Celine Frigau et le Collectif « La langue du Bourricot » de l’Université Paris 8
Regia : Sergio Longobardi con la complicità di Mirko Artuso e Costantino Raimondi
Con Sergio Longobardi e Michael Nick
Voci off di Agata Nunziante e Sergio Longobardi
In Video Salvatore Longobardi
Musiche di scena :Michael Nick
Luci: Manon Geffroy
Editore  del testo: PUM de Toulouse Nouvelles scenes-Italien
Crediti fotografici: Hind Oukerradi