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Ci sono periferie geografiche e urbane, periferie della mente e dell'immaginazione, periferie psicologiche ed interiori. Il “Torino fringe festival”, alla sua seconda edizione, tenta ancora una volta di occuparle, di riempirle e, detto senza alcuna retorica, anche di riscattarle. Quattro i giorni di spettacoli in sequenza e in spazi marginali (un garage, un circolo operaio, un bar o un magazzino) paradossalmente recuperati al teatro e non da soli ma con le loro relazioni, i loro rapporti fatti emergere e così riappropriati. E poi ancora per altri 5 giorni quegli stessi spettacoli reiterati e rimescolati, in quegli stessi spazi e all'interno di quelle stesse relazioni.
Una macchina complessa che appare rivisitare l'evento festival senza però rinnegarne i riti, che si è messa in moto con molta volontà ed un po' di fatica, il 3 maggio fino al 6 maggio, e poi di nuovo dal 7 fino all'11 maggio.
Visti, dunque, ieri 3 maggio:

CYRANO
Una produzione CRAB/Teatro abitato di Torino, in scena al Garage Vian alle pendici della collina torinese. Il lavoro di Rostand è un meccanismo assai particolare di straniamento, temporale, sintattico e anche recitativo, che conduce fuori di sé sotto l'apparenza del racconto più tradizionale, che già intrinsecamente rivisita miti perduti del romanticismo francese nel cuore del suo più illusionistico barocco, e in una articolazione scenica quasi di esercitazione di scuola. La giovane compagnia lo affronta a viso aperto, evitando confusioni e rimaneggiamenti consolatori, evidenziandone spazialmente il movimento rotatorio e sconfiggendo con quel moto centrifugo ogni tentazione di immedesimazione. Separati da un sottile paravento sono dunque i personaggi quelli che ruotano davanti a noi in una sintassi scenica dei sentimenti che, sotto l'apparenza del realismo e dell'inveramento psicologico, in realtà allontana. La drammaturgia seleziona e frantuma il testo ma ne mantiene gli equilibri anche nella buona regia, abile in spazi minimi, di Pierpaolo Congiu che è contemporaneamente un ottimo Cyrano. Assieme a lui in scena, e bravi del pari, Francesca Cassottana e Alessandro Berruti. Un'apertura un po' a sorpresa per questo festival.

ZELDA
In una stanza dello storico circolo Oltrepo, ai margini occidentali del parco del Valentino. Produzione della torinese Piccola Compagnia della Magnolia, in una prova che ne conferma la capacità di indagine drammaturgica e di introspezione intima. Zelda Sayre, moglie non propriamente felice di Francis Scott Fitzgerald, in un certo senso suo alter ego, sua stessa speculare immagine al femminile. Scrittrice sapiente e intensa mortificata dalla ingombrante presenza del compagno e dalla sua inarrestabile malattia, o forse dagli indissolubili legami tra l'una e l'altra. Proto-femminista secondo molti, ma anche schiacciata dalla dicotomia tra immagini e rinnovati ruoli sociali del femminile, apparentemente accettati perché di successo da una società ipocrita, ed un substrato psicologico ed affettivo inadeguato e frutto di una storia familiare contrastata. Una coscienza di sé dunque forse ineluttabilmente “schizofrenica”, su cui le tensioni di una relazione contrastata non potevano che agire da moltiplicatore.
Sull'ultimo giaciglio di Zelda, nella stanza di un oscuro ospedale psichiatrico della provincia americana, la brava Giorgia Cerruti, che è anche la drammaturga dello spettacolo insieme a Davide Giglio, ripropone le parole di una Zelda già in attesa della morte otto anni dopo il compagno, articolandone la sintassi, anzi la stessa presenza scenica, su piani temporali intrecciati, in cui l'alternanza degli eventi ed i flash back ripetuti ricostruiscono un senso psicologico pieno e coerente ad una vicenda umana che man mano da singolare si fa esemplare. Tra ricerca formale e densità emotiva dunque, come scrivono del loro lavoro i drammaturghi, la figura di Zelda si fa metafora di sé stessa, metafora fatta di slanci appesantiti dal passato e trascinati in un tragico vuoto di futuro. Slanci di una passione per l'arte, slanci di danza ed un pesante odore di rose sfatte nel tempo che tutti ci trascina. Spettacolo intenso e ricco di suggestioni e di emozioni che mette alla prova fino in fondo la crescente sapienza attoriale della Cerruti.

UCCIDETE LE MADRI
A seguire negli stessi spazi dello spettacolo precedente, questa produzione della “Piccola Bottega delle Arti” di Roma, drammaturgia e regia di Camilla Cuparo, luci di Rosario Mastrota. In scena Luigi Iacuzio abile e poliedrico nella sua capacità di dare tridimensionalità al suo monologo proiettando e articolando su piani diversi la sua presenza scenica. Drammaturgia in un certo senso del ribaltamento del consueto, che affonda le sue radici di senso in un evento reale consumatosi nella provincia di Reggio Calabria. Un ribaltamento di ruoli e di significati, quello del femminile all'interno di comunità in cui una modernità declinata in violenza criminale è ancora incistata di un arcaico le cui motivazioni appaiono però dimenticate. Il femminile delle madri, quindi il loro potere antico sulla vita, messo alle strette all'interno di un patriarcato ormai solo prevaricante, si ribalta in potere di morte rivisitando gli schemi del potere maschile con una potenza che si fa sconvolgente. È come se queste madri, chiuse e costrette dentro faide infinite per generare figli destinati ad uccidere od essere uccisi, quindi votati comunque alla morte, non mettessero più in discussione questi schemi maschili ma al contrario, proprio a fronte del loro inevitabile deterioramento all'avanzare della modernità, li supportassero e li ripristinassero, incamerandone le leggi fino a mettersi sostanzialmente al posto dei maschi stessi. Del resto non sono rari i casi di cronaca di surroga femminile a boss arrestati.
La drammaturgia di Camilla Cuparo e la recitazione franta e disperata, in un dialetto meridionale imbastardito ed alienante, di Luigi Iacuzio, di tutto questo mettono in scena soprattutto lo “spavento”, lo spavento di uomini e di donne, lo spavento che man mano emerge di fronte all'unica tragica alternativa per interrompere la catena, uccidere queste madri, uccidere le madri.
È un gesto denso di simbolismi, questo, una decisione che dal contesto dell'esperienza personale e singolare si apre a prospettive di scissione interiore e forse di evoluzione ed elaborazione destinate credo a coinvolgere maschi e femmine, madri e padri, mogli e mariti, e a rivederne infine relazioni e sintassi, sociali e psicologiche, intime e collettive, per articolare in forme più consapevoli ed in  reciproca parità quelle stesse relazioni.

Un buon esordio per questo Festival che appare intenzionato, e spero destinato, ad aprire spazi a giovani e dinamiche nuove energie del teatro italiano.