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Le intronate, pubblicato nella collana Panopticon che le Edizioni Joker dedicano coraggiosamente al teatro (in un momento in cui l’editoria teatrale sta avendo una forte crisi), raccoglie quattro “parlate per giullara sola” scritte da Andrea Laiolo per l’attrice Donatella Lèssio, cui segue, a fare da contrappunto alla versione letteraria del testo scritto dall’autore, una drammaturgia del testo stesso, messa a punto dall’attrice, in un connubio strettissimo – e fecondo – tra parola scritta e atto scenico, in cui, come sostengono gli autori stessi nella Notizia che precede l’opera, la forma non è mai «stabilita una volta per tutte», ma resta sempre, e ogni volta di nuovo, «materia da plasmare in relazione alle esigenze di messa in scena», in un continuo «scambio circolare tra scena e letteratura», che non può non ricordare, «nostalgicamente, le forme dell’antico teatro» (interessanti sperimentazioni in questo senso, e in altri, si trovano anche nel successivo lavoro teatrale di Laiolo, intitolato "Donna a-gogna" e contenuto nell’antologia a cura di Sandro Montalto "Teatro aperto" - Edizioni Joker, Novi Ligure 2012).
I quattro testi che compongono il volume, "Lei", "L’archipènzolo", "Il tiglio della birra" e "L’acquaiòla", si susseguono a ritmo incalzante, eseguiti dall’intrigante personaggio della giullara che sulla scena veste di volta in volta panni differenti, con i quali si rapporta in modo diretto e privo di filtri con il pubblico e con il lettore.
Dapprima la troviamo nei panni di una misteriosa e volutamente indefinita “Lei”, che di sé non può dire null’altro se non: «D’altronde, non m’appartiene nulla. Sono. E mi chiamo Lei. Mi trovo qua di fronte a voi, poiché per me un posto ne vale un altro. […] Tutto è indifferente. Se voi foste un addio, io non sarei per sempre! Ma io, che sono Lei, sono per sempre. Ed ora me ne vado. Qui, al mio posto, verrà tra poco la Giullara». Un personaggio di cui la giullara, e tutti i suoi successivi travestimenti, sono semplici incarnazioni: «Negli eventi che accadranno […] sarà il mio spirito a dare manifesta prova della sua tenacia, ed una giullara lo incarnerà, prendendo fors’anche il mio aspetto». E che sin dalla sua prima apparizione si adopera, con malcelata soddisfazione, a mettere in discussione ogni minima certezza del pubblico che ha di fronte, attraverso una stringente sequela di giochi linguistici e labirinti mentali che calano il lettore/spettatore, immediatamente e sin dall’inizio, entro un’atmosfera straniata e straniante.
Il secondo monologo porta in scena il personaggio della giullara, la prima delle confuse “incarnazioni” del personaggio iniziale, che si presenta semplicemente nei panni di se stessa, nella sua disarmante immobilità, nel suo semplice atto di esistere – che la accomuna, in maniera speculare, alla statua del centauro Crinèa-Mariarosa – mentre si compiace di stuzzicare la curiosità, ai limiti del voyeurismo, di una sequela di osservatori che ogni giorno la spiano inconsapevoli di essere osservati a loro volta. E dalle sue mordenti parole emerge il ritratto di un’umanità giunta ad essere quasi la caricatura di se stessa, persa nelle proprie frenetiche quanto insignificanti ‘avventure quotidiane’, alla continua e frustrata ricerca di un senso, destinata a scomparire quasi senza lasciar traccia, cui si oppongono la stabilità e la permanenza della statua, e della giullara stessa: «- Giusto! Avanza ancora da immaginare chi o cosa siano per noi costoro. / - Cosa siano per me, non lo so. Forse nulla. / - Per me, invece, sono come delle pareti chiuse che mi stiano intorno. Ciò almeno qui e adesso. Chi sa altrove che cosa diverrebbero. / - Ma, cara, carissima ragazza, costoro esistono solo qui e adesso. // Oh, come li sento tutti addosso a me quegli occhi accaniti e nascosti! E perché mai dovrei sottrarmi a coloro che me li puntano contro? In fondo, il vero piacere me lo prendo io… e, infine, loro se ne andranno molto, molto prima di me».
Nel terzo monologo la giullara veste i panni di un’inusuale vichinga, moglie e casalinga rinchiusa in cucina, alle prese con i problemi della realtà quotidiana, ma desiderosa di vivere ben altro genere di avventure: «Macché! Non voglio mariti o pettini di corno oppure di osso, né dispense da governare, lunghe come ventri di balene! Io voglio pigliare il mare ed essere vichinga predace! Non pettini, ma spade; non case o dispense, ma navi co’ i’ scudi; non birra, ma sangue; non mariti o lessi, ma draghi e serpenti schifosi!».
Mentre nel quarto monologo la giullara diventa la domestica dei signori X, semplice famiglia medio-borghese che svela, dietro l’apparente tranquillità delle mura domestiche, un lato nascosto ossessivo e grottesco.
Ma a ben vedere, dietro queste incarnazioni di quell’indefinito e non chiarito personaggio iniziale, calate in situazioni profondamente diverse tra loro, nello spazio e nel tempo, si nasconde in realtà lo stesso intento, la stessa inamovibile volontà, che è essenzialmente quella di mettere a nudo, dietro un sorriso che smorzi il rischio di un rigido e indigesto moralismo, tutte quelle nevrosi, quelle frustrazioni, e insomma quegli elementi negativi che si celano dietro la controllata e misurata commedia dell’esistenza quotidiana: «Non vi sembra divertente / l’esistenza della gente? / Da giullara ho provveduto / a inscenarvi la commedia. / Se hai, oh mio pubblico, potuto / rimanere sulla sedia, / dammi il merito, di grazia! / La giullara ti ringrazia» (impossibile non leggere nel ritmo spontaneo di questi versi, peraltro, la sapienza metrica che caratterizza le raccolte poetiche di Laiolo, da ultimo "L’aranceto nel marmo" - Edizioni Joker, Novi Ligure 2011 – che reca l’esplicito e programmatico sottotitolo "Misuratezza e ludicìzia").
Tutto ciò attraverso la scelta significativa del personaggio di un’insolita giullara, che soddisfa da un lato la volontà di mettere in campo una polemica che sia sì seria, ma non per questo attuata dall’alto di una presunta perfezione, bensì mossa da un personaggio che nella commedia della vita è profondamente immerso, seppure forse con un maggior grado di disillusione e consapevolezza; e dall’altro lato, nel richiamo ad un lontano passato che la figura del cantore-giullare contribuisce ad attuare, anche il desiderio di chiamarsi fuori, anche se solo per lo spazio di poche pagine, dagli stretti meccanismi di quella commedia moderna.