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Ne parlano Erodoto e altri storici dell’antichità classica; Marco Polo, nei suoi racconti di viaggio, riferisce di tribù cannibali dal Tibet a Sumatra; più fonti attribuiscono rituali di cannibalismo agli Aztechi e a molte popolazioni native d’America, delle isole Fiji, o in Australia, Nuova Zelanda e Africa; mentre nel Manuale di criminologia clinica, Marco Strano a proposito dell’esocannibalismo così scrive: «[…]è la pratica di coloro che si cibano della carne di persone che non appartengono al proprio gruppo. Generalmente, lo scopo è quello di sottolineare il potere della tribù/gruppo, di spaventare i nemici, di liberarsi in modo utile dei prigionieri o di assorbire l’abilità delle vittime. Attualmente, si possono distinguere diverse tipologie di cannibalismo relativo all’uomo: quello guerriero, quello religioso, per sopravvivenza, dovuto a psicopatologie, per vendetta, per condanna, per culinaria[…]In casi del genere, comunque, agiscono sulla mente alterazioni patologiche in grado di soffocare il normale senso del disgusto rispetto al consumo di carne umana, generalmente causato da sentimenti di frustrazione, rispetto alla capacità di agire sul mondo e sulle persone che sfuggono al controllo». Il tema del cannibalismo, o antropofagia che dir si voglia, è al centro, lo si sarà capito, de Il baciamano, lo spettacolo andato in scena alla Galleria Toledo, per la regia di Laura Angiulli e interpretato da una splendida Alessandra D’Elia, cui si affianca Fernando Siciliano. Tratto dall’omonimo testo di Manlio Santanelli –il cui debutto risale al 1994- l’allestimento ha come protagonista, al tempo dell’effimera rivoluzione partenopea del 1799, una lazzara sanfedista dal simbolico nome di Janara -strega in napoletano- e un gentiluomo giacobino, che le è stato portato incaprettato dal marito Salvatore affinché lei lo uccida, lo cucini e lo serva come pranzo alla famiglia perennemente affamata. Come scrive Teresa Megale nell’introduzione al volume Teatro di Manlio Santanelli, in questa pièce «Passando al setaccio la rivoluzione napoletana, come fecero gli storici meridionalisti del primo novecento, il drammaturgo sceglie di rappresentare l’irrappresentabile, la brutalità delle masse sanfediste che si macchiarono di episodi di cannibalismo, riuscendo a giocare però con l’orrore, con la leggerezza tragicomica e paradossale propria della sua originalissima drammaturgia». Del resto, fu proprio Manlio Santanelli, durante un’intervista di qualche anno fa, a dirmi di prediligere «la messinscena del malessere, perché viviamo a contatto con un diffuso disagio, una diffusa inquietudine. È chiaro, comunque, che io non riporto la realtà così com’è, ma la rielaboro con strumenti molto personali: innanzitutto il paradosso. La realtà, infatti, è paradossale e perciò rappresenta, almeno per me, lo strumento espressivo più efficace». Dunque Il baciamano contiene, come si può facilmente intuire da quanto abbiamo detto finora, tutti gli elementi del teatro santanelliano, dai presupposti filosofici agli stilemi drammaturgico/linguistici: in primo luogo, quell’idea della teatralità come rito di liberazione e di confessione pubblica. E Il baciamano è, in effetti, un rito complesso, una vera e propria cerimonia, la cui essenza viene intelligentemente rispettata, nello spettacolo in parola, dalla regia di Laura Angiulli. Una regia che ha operato con mano leggera ma ferma, senza sbavature, ponendo al centro della scena due attori bravissimi e in perfetta corrispondenza, e che seppur ha praticato qualche breve taglio, ha lasciato intatto l’impianto drammaturgico, assecondandone lo svolgimento della trama. La Angiulli ha dato così vita ad un lavoro che funziona come un perfetto ingranaggio, al quale forse si può muovere l’unico appunto di aver insistito più sui toni decisi dell’ironia che su quelle sfumature chiaroscurali, da cui il testo di Santanelli pure è attraversato. Con Il baciamano ci troviamo, del resto, di fronte ad una pièce segnata –come spesso accade nel teatro del Santanelli- dal predominio della figura femminile, dove la guerra –in questo caso la guerra civile- diventa dispositivo di svelamento del vero volto della comunità, non più legata da umana solidarietà ma privata di coscienza civile, e dove il cibo assume –come dicevo all’inizio- il gusto empio dell’antropofagia. La vicenda, in cadenza tragicomica, si svolge tutta all’interno della casa/grotta di Janara -tipico esempio di universo concentrazionario e claustrofobico che è una delle peculiarità del teatro di Santanelli- la cui matrice drammaturgica sono quelle stanze-prigione di ispirazione pinteriana, autore al quale il drammaturgo napoletano è stato spesso accostato. Gli eventi che vi si sviluppano, di conseguenza, si muovono sul filo di un continuo slittamento sul terreno dell’iperbole e del paradosso surreali, e hanno in Janara il loro epicentro. La donna lacera, unta, scarmigliata, conduce un’esistenza miserabile; è un personaggio fosco eppure umano, che porta impresso nel nome il marchio di una cultura inferiore e superstiziosa. La lazzara, costretta a uccidere e cucinare i giacobini, è una carnefice paradossale, consapevole di essere vittima più della fame che della storia, più della necessità che degli ideali. In scena, queste antinomie trovano la loro sintesi nella brillante prova recitativa offerta da Alessandra D’Elia. L’attrice che disegna il personaggio della lazzara, lo fa esibendo una prova intensa, per variazioni di registro, modulazione di toni, e capacità di usare lo strumento attoriale corpo/voce come un prisma, all’interno del quale le emozioni si scompongono e si ricompongono a seconda del contesto scenico-drammaturgico. Sa essere fragile e forte, seducente e ripugnante, brutale e sensibile fino allo struggimento finale. A lei si affianca un altrettanto bravo Fernando Siciliano, interprete del Gentiluomo giacobino, che qui è l’incarnazione dello spirito laico e illuminista dei filosofi. Siciliano punta tutto sulla simpatia e sull’autoironia della sua condizione di vittima; gioca di rimessa –se mi si consente questa metafora calcistica- rappresentando un perfetto controcanto della Janara/D’Elia, all’interno di quel conflitto che riassume lo scontro, drammaturgico e attualissimo –basti pensare alla politica di casa nostra- fra la Realtà e l’Utopia. Insomma, un’ora di teatro piacevole e interessante, in cui il baciamano conclusivo è l’apice di quel gioco paradossale cui abbiamo assistito. La scena racchiude l’unico momento di contatto tra due personaggi così lontani ed estranei. Come scrive ancora Teresa Megale nel volume precedentemente citato: «Janara, donna sola e disperata, madre  violenta e minacciosa, lei stessa vittima della violenza maschile, ragiona sulle sue mani e desidera morire. Per lei, le mani rappresentano l’unico territorio proprio, il solo strumento di conoscenza e di esistenza. Il tema percorre l’opera sin dall’inizio[…]Il baciamano, gesto estremo di deferenza e vassallaggio, riflesso di un mondo aristocratico da rifiutare per il giacobino, diventa il massimo desiderio per la lazzara, che solo in tal modo riesce a comunicare con l’elegante Gentiluomo». Quel baciamano rappresenta sì l’ultimo bagliore di una Napoli aristocratica, la frattura storica che produsse la fine della repubblica partenopea, ma anche l’umanizzazione di Janara, che viene rapita da un orgasmo sconvolgente, come non aveva mai provato prima. Un orgasmo che è perdita della coscienza di sé, la piccola morte lo chiamano i francesi, e perciò come la morte ci libera –e libera per un attimo Janara e il Gentiluomo- dalla tragedia e dal dolore di vivere, per stringerli in un metaforico amplesso dei sensi e delle idee. In un antropofagico amore!