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Il dato certo di questa messa in scena di Der Park è che c'è in campo una compagnia di ottimi attori. Motivo per cui vale la pena affrontare una maratona di quasi cinque ore. Che è poca cosa se consideriamo le dieci (o forse dodici) dei Demoni del 2009 a cui Peter Stein ci aveva preparato. Anche allora si trattava di uno spettacolo che aveva richiesto un impiego atipico di forze da parte del regista che si era trovato costretto a ripiegare sulla dependance della sua casa di San Pancrazio, in Umbria, per l'occasione allestita a palcoscenico. Questa volta si è trattato invece di rinunciare integralmente al suo compenso, per permettere a quella che doveva essere la compagnia residente del Teatro di Roma di fare almeno il primo di una serie annunciata di spettacoli.
Là l'interlocutore era lo stabile torinese intransigente di fronte a una produzione più onerosa del previsto, qui è il Teatro di Roma

che si è trovato a fare i conti con gli ingenti tagli dei contributi pubblici che stanno penalizzando su più fronti teatro e cultura.
Ma a questo testo che Botho Strauss scrisse più di trent'anni fa apposta per lui, Peter Stein non ha voluto rinunciare. Non solo: ha voluto riproporlo esattamente come allora, con lo stesso importante apparato scenografico che prevede ben trentadue cambi, proprio come nella versione tedesca che debuttò nel 1984 allo Schaubuhne di Berlino con  Bruno Ganz e Jutta Lampe.
Der Park è un affondo grottesco nella società capitalistica degli anni ottanta, raccontata usando le figure e i rapporti del Sogno shakespeariano. Una società 'laboriosa ma stanca che si è allontanata dal sacro', come la definisce l'autore, incapace di amare e di provare sentimenti e passioni,  che viene sorpresa e irrisa da un'opera d'arte. Il sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare infatti offre le categorie per rileggere il mondo di oggi che per Strauss è quello di trent'anni fa ma non molto diverso dal nostro.
"Dopo trent’anni anni la mia ammirazione per questo testo è addirittura cresciuta- dice Stein - "e ho lasciato l’ambientazione nella Berlino del 1983 per dare al pubblico la chance di ammirarne l’attualità. Molte cose che Strauss aveva intuito trent’anni fa, oggi sono davanti agli occhi di tutti".
L'arte è ridotta a merce di scambio, la religione si offre alla peggiore strumentalizzazione politica, le nuove generazioni sono alla deriva, il razzismo è strisciante e il sesso è apatico e disordinato, senza eros e senza bellezza. La ragione e gli affari hanno guastato gli istinti, dice più o meno il vecchio Oberon a una Titania  disincantata che gli domanda se è pronto per l'ennesima battaglia persa.
Il loro compito è quello di ravvivare nel genere umano ormai anestetizzato un po' di eros e di passione, ma finiranno anch'essi travolti nel degrado mondano e dei sentimenti. La contaminazione si compie ma verso il basso: è questa l'amara conclusione a cui pervengono l'autore e il regista e riesce difficile non convenire.
La vicenda del Sogno shakespeariano viene traslata in un parco cittadino dei giorni nostri, dove tra cespugli,  rifiuti e inquinamento acustico sopraggiungono Oberon e Titania (Paolo Graziosi e Maddalena Crippa), lui un quasi clochard con due enormi occhialoni neri, lei vagamente psichedelica. 
L'umanità da ricondurre all'innocenza perduta si era già annunciata con una sguaiata Helen (Pia Lanciotti) vestita di lustrini caduta dal trapezio di un circo amatoriale, e dal suo amante Georg (Graziano Piazza) che con generica approssimazione la interrogava sull'arte. E' la coppia che rinvia a Elena e Demetrio a cui fanno da contraltare Ermia e Lisandro ovvero Wolf e Helma di Gianluigi Fogacci e Silvia Pernarella.
Tra loro si consumano senza coinvolgimento reale rapporti esasperati di manipolazione e pettegolezzo, gelosie e competizioni perlopiù simulate visto che dei sentimenti in gioco non importa niente a nessuno. E tra regali di nozze alla donna amata in procinto di sposare un altro uomo, tra coppie demandate alle scelte  computerizzate delle agenzie matrimoniali,  tra divergenze sbandierate sulle questioni razziali, si ipotizzano legami incrociati di affetto presunto come fossero esiti di algebriche proprietà transitive.
E nonostante le intercessioni di Cyprian (Mauro Avogadro), un Puck in palandrana al servizio di Oberon,  nessun buon sortilegio è in grado di ripristinare l'equilibrio perduto né i sentimenti sinceri oltre i giochi di ruolo. La sacralità è smarrita per sempre e la corruzione e lo sperpero hanno la meglio.
Tutto è eccesso, volgarità, provocazione da poco: la scalata sociale senza scrupoli, le femminee competizioni di fondoschiena, i rigurgiti beceri di fanatismo e anche la difesa dei deboli di cui pure si parla ma che non basta e non vince. Anche la fata Titania cede di fronte alle lusinghe blasfeme e diventa mortale, generando un processo che comincia da impertinenti tentazioni secolari (che ore sono) e termina con una festa malriuscita organizzata insieme a suo figlio il Minotauro, ovvero il trionfo del contagio e della corruzione. 
Una scena strepitosa che chiude in bellezza con la Crippa e Alessandro Averone in cui si sbeffeggia il rapporto di forza tra una madre possessiva e un figlio innamorato, probabilmente gay, con tutti i tic di una classe altoborghese in disfacimento che se la racconta, inascoltata e blindata in stanze museali, tra lunghi fili di perle e ore del tè. Il personale è in esubero ma gli invitati latitano, l'euforia è artificiosa e la smania di ognuno è quella di eccellere a qualsiasi costo, ma senza fare fatica, confidando casomai nell'anonimato del mucchio. 
Il tutto viene reso anche attraverso registri volutamente esasperati che funzionano grazie a una recitazione molto sorvegliata da parte degli attori, efficaci nel gestire i tempi e le relazioni. Non disdicono, anzi divertono, anche i segni insistentemente kitsch  come l'enorme fallo luminescente di Oberon, il pelosissimo pube di Titania  e le sue corna taurine che la accomunano al figlio, prodotto mostruoso dell'accoppiamento con un toro nonché sigillo e allegoria dell'intera vicenda.
Stupirebbe invece la scenografia imponente firmata da Ferdinand Woegerbauer, dati i tempi di ristrettezze, ma pare che Stein la volesse proprio mantenere così, e già si è detto che ha rinunciato al suo cachet.
In scena anche Fabio Sartor, Andrea Nicolini, Martin Chishimba, Arianna Di Stefano, Laurence Mazzoni, Michele De Paola, Daniele Santisi, Carlo Bellamio e a sere alterne i piccoli Romeo Diana e Flavio Scannella.
I costumi sono di Anna Maria Heinreich, le luci di Joachim Barth e le musiche originali di Massimiliano Gagliardi.

foto di Serafino Amato

DER PARK
di Botho Strauss Regia di Peter Stein
Roma Teatro Argentina fino al 31 maggio