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Non sembra essere stato scritto nel 1971. “Il prigioniero della seconda strada” di Neil Simon ci parla, oggi come allora. La Compagnia Teatri Soratte lo sa, ritrova il filo di una connessione lunga ormai più di quarant'anni e, con la regia di Fabio Galadini, riporta in scena al Teatro dell'Angelo la pièce del drammaturgo americano, resa celebre dall'omonima pellicola del '75 diretta da Melvin Frank, con Jack Lemmon nei panni del “nervoso” e attualissimo protagonista.
Sullo sfondo, un'estate afosa di New York. Un ciclico periodo di crisi, la perdita del lavoro e l'impossibilità a trovare una nuova occupazione sono le cause che scatenano il crollo nervoso di Mel Edison (qui interpretato dallo stesso Galadini). Ex dirigente di un'azienda pubblicitaria, esponente di una classe media

ormai destinata a estinguersi, a causa di una forbice sociale sempre più divaricata, il quarantassettenne crolla in una depressione, che sfocia in una lamentosa quanto umoristica teoria del complotto: “il complotto invisibile dello Stato per minare le classi lavoratrici”, tutte riunite nella sua unica figura. A cercare di rinsavirlo è la moglie Edna (in scena, Veronique Vergari) assieme a un contorno di fratelli e sorelle che facilmente rivela le ipocrisie tipiche di ogni nucleo, familiare e non.
Punti di forza del testo sono i continui contrasti – caldo e freddo, interno ed esterno, lavoratore e disoccupato, singolo e massa – che in questa regia vengono forse sottolineati con una resa scenica un po' sopra alle righe, ma al contempo ritenibile necessaria alla rappresentazione ironica di un affresco di drammatica esasperazione, per molti vera prigione e motivo di vergogna di se stessi.
Facilmente ci si rispecchia nella storia di Simon. Il deterioramento del proprio “io” in mancanza di un lavoro è purtroppo cronaca contemporanea, che qui si stempera con un po' di sana leggerezza. Eppure il riadattamento di Galadini sembra risentire del confronto col suo modello filmico, attestandosi su di una soglia di ridondanza che dilata l'andamento crescente del dramma. Grazie alle musiche di Giovanni di Cosimi si passa da un quadro all'altro, assistiamo alla progressiva e “simpatica” - nel suo senso più strettamente etimologico - degenerazione del protagonista, ma l'impressione è che il ritmo perda poco per volta d'intensità, sfumando senza climax verso un dolce finale. Lo stesso che oggi irrealisticamente ci si augura un po' per tutti.