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Ci sono storie che attraggono per il proprio fascino noir. Casi irrisolti, che nascono dalla cronaca ed entrano di prepotenza in un capitolo della vita comune, nutrendosi di teorie e di ipotesi – non importa quanto lontane dal reale – volte ad alimentarne l'aura di macabra seduzione. Il confine tra la ricerca di risposte e l'invenzione di verosimili è labile. Ma cosa si è disposti a fare per saziare l'agognante desiderio di sapere?
Sono queste le riflessioni da cui si sviluppa “Et in arcadia ego”, spettacolo di Alex Pascoli - tratto dal libro “Cui prodest” di Alessandro Batolomeoli – incentrato sugli efferati omicidi del Mostro di Firenze, in cui i delitti compiuti dal '68 all'85 si riconnettono allo stragismo nero e alla strategia della tensione di quegli stessi anni.
Sulla base delle tante coincidenze ritrovate, a svelare l'esistenza di un complotto, di un “potere che fotte la legge”, legando la

politica a quei casi di cronaca, è Alex (lo stesso Pascoli), autore di uno scomodo libro, ora causa delle sue paure. Dopo il rinvenimento del cadavere di Padre Zeno, amico e informatore, nel suo appartamento, il giovane scrittore è costretto in carcere come principale indiziato. A complicare la sua posizione è l'arma del delitto, la famosa Beretta Calibro 22 che lascia emergere con timore e desiderio un quesito: il Mostro è tornato? Solo fidandosi del suo avvocato (Alessio Caruso), Alex potrà provare la sua innocenza e, forse, trovare le risposte che ancora stava cercando.
Intrecciando i fatti che portarono all'uccisione delle nove coppie di amanti con un immaginario romanzato di grande presa, Alex Pascoli orchestra l'impianto drammaturgico lasciando un'impronta registica evidente e ponderata. La pièce è sostenuta da un ritmo incalzante nella prima parte, dove con pochi effetti scenici il clima di tensione cresce assieme all'aspettativa di un decisivo faccia a faccia con la verità. I capricci di un neon rotto si accompagnano così al rumore di un inquietante cortocircuito nei momenti di maggiore suspance, la quale si accresce con lo spegnersi e il riaccendersi delle luci, nei passaggi temporali da una scena all'altra. Non può dirsi lo stesso della seconda parte, in cui ci si scontra ben presto con il rischio di una resa didascalica. Dinnanzi al quadro del Guercino, dal titolo enigmatico – “Et in arcadia ego”, appunto – si dispiegano le eccessive ragioni e si consuma la parabola evolutiva del protagonista, la quale, in un passo a due di seduzione col proprio nemico, piega l'ideologia alla curiosità morbosa, indugiando così in momenti di superflue azioni. Per effetto, il testo si dilata con una conseguente diminuzione d'efficacia ma ciò che rimane è il mistero e la volontà di dissiparne i dubbi sotto l'imperativo categorico dell' “a ogni costo”, con cui umanamente siamo disposti a vender l'anima al primo Mefistofele che speriamo d'incrociare sul nostro cammino.