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Il 3 giugno 2015 il Napoli Teatro Festival Italia apre i battenti. Scricchiolando, arrancando, proponendo, il Festival, dunque, riparte ed anche quest’anno ne siamo spettatori. Abbiamo scelto 18 spettacoli, tra una rosa di proposte collocate all’interno del programma del Festival ed in quello del Fringe, che prevede, quest’ultimo, l’allestimento di spettacoli e testi firmati da autori emergenti e giovani compagnie. Temi e stili, preponderanti nelle produzioni di quest’anno, sono quelli caratterizzati soprattutto dall’attenzione all’artista di strada, riportato in palcoscenico, ingabbiato al chiuso. Propensione, dunque, per il bagaglio artistico ed estremamente poetico del mondo dei  circensi, degli acrobati, dei maghi e dei prestigiatori, dei mimi, dei personaggi ereditati dalle favole, che vengono inseriti all’interno

di un percorso drammaturgico tradizionale o che vengono “imprigionati” tra le pareti del palcoscenico, regalando magia agli spettatori. La tendenza alla clownerie e all’artista di strada, più forte nelle produzioni europee che in quelle italiane, si unisce alla semplicità del testo drammaturgico che, sia nelle produzioni italiane che in quelle estere, appare elemento di ritorno, non tradizionale, e soprattutto  momento di epurazione dal superfluo. Il pubblico risponde positivamente alla semplicità del racconto e soprattutto si ritrova nei personaggi, nelle storie reali, nella semplicità dei sentimenti, nella poesia delle emozioni. Proprio gli spettacoli costruiti attraverso questa tipologia di percorso narrativo sembrano colpire ed emozionare profondamente il pubblico napoletano di questro Festival, che dimostra la voglia di un ritorno alla purezza del racconto affinchè lo spettatore sia pronto ancora ad emozionarsi. E, certamente, le emozioni e le storie “piccole” inducono, comunque, chi ascolta e chi guarda, ad una personale e più profonda riflessione sull’Uomo.
Il nostro Festival comincia anche quest’anno con uno spettacolo proposto all’interno del programma del Fringe: dalla Sicilia alla Sicilia, attraversando l’Europa, questo il nostro percorso all’interno del Festival. Primo spettacolo proveniente dalla Sicilia, l’ultimo, come vedremo, anche. Esattamente da Palermo, dalla produzione della compagnia SUTTA SCUPA, testo intitolato SCÙOSSA, liberamente tratto da “L’ammazzatore” di Rosario Palazzolo. In scena Gaspare Balsamo e Simona Malato, per la regia ed adattamento di Giuseppe Massa. La storia di un ammazzatore, piuttosto che di un killer, così come si fa chiamare il protagonista, le cui origini siciliane sono evidenti grazie alla lingua utilizzata ed al contesto descritto, cioè quello di una famiglia a contatto con la mafia. Ernesto Scuòssa entra a far parte di un luogo e di un agire quotidiano identificati attraverso alcune presenze e metodologie mafiose, come il boss Cartapecora, o come  la sua prima vittima, cioè Angelo. Presenti anche i personaggi femminili, dalla madre a Katia, quest’ ultima la donna di cui si innamora il protagonista. La storia, costellata da momenti di ilarità ed altri di riflessione, comincia con una donna – la madre -  colei che rappresenta i buoni valori e la tradizione, e prosegue con un’altra figura femminile, che rappresenta l’amore ed il sesso. Entrambe saranno condotte verso una fine terribile. I personaggi che via via vengono descritti nel corso dello spettacolo, e quindi della vita del protagonista, appaiono come caricature di memoria cinematografica. Cartoni animati e sagome ricordate dalla mente di un bambino, così come  infantile appare lo stesso Ernesto, inerme, incapace di capire a fondo la violenta realtà ma fermamente deciso di farne parte. Lo spettacolo recupera numerose tematiche, nessuna delle quali rappresenta una denuncia alla mafia sicialiana o a qualunque tipologia di associazione mafiosa. Il riferimento alla Sicilia rappresenta la cifra stilistica della compagnia, di origine siciliana, nel descrivere un microcosmo che raccoglie in sé il tema del libero arbitrio, dello sfruttamento dell’uomo, delle decisioni perseguite a lungo e poi causa di drastici cambiamenti, di “scosse” appunto. Il confluire, però, di elementi diversi e disparati all’interno di una narrazione che segue un perscorso cronologico, sebbene intervallato da scene “danzate” di eccessiva durata, o di atti sessuali ironicamente mimati mentre i due attori continuano a conversare, sembra presentare un insieme di temi e di percorsi che lo spettatore intraprende, poi lascia, poi riprende, aspettando una conclusione reiterata,  rimandata, che non ci fornisce particolarità semantiche così profonde. Nel corso del racconto i due attori – l’attrice interpreta tutti i personaggi citati e presenti nel corso degli eventi vissuti dal protagonisa – indossano scarpe dalle altissime suole, in gomma o  in legno, rendendo pesanti gli spostamenti, costringendo i due a strisciare i piedi, come dei macigni che incollano i corpi al pavimento, rendendo lo scorrere della vita estremamente doloroso. Materiale presente in tutto lo spettacolo, la plastica, diventa sipario, pavimento, abito di scena, come all’inizio, quando la madre partorisce dal ventre-abito plastificato Ernesto Scuossa, o alla fine, il foglio-muro di plastica opaca che divide il pubblico dall’attore, come una quarta parete. Il monologo finale riporta il pubblico ad un particolare momento di  intensità, ed è rivolto alla madre. Ma ci si chiede il perché dell’utilizzo superfluo dei sottotitoli in traduzione italiana dal siciliano, e soprattutto, qualora si scelga di inserirli nella messinscena, perché utilizzarli solo durante la prima e l’ultima scena?
Dalla Sicilia all’Inghilterra, il Festival propone la drammaturgia di Sarah Kane, con il testo  CRAVE/FEBBRE, inserito all’interno del programma del Festival. La regia di Piepaolo Sepe propone naturalmente il testo in italiano e,  in scena, quattro ottimi attori -  Gabriele Colferai, Dacia D’Acunto, Gabriele Guerra, Morena Rastelli - che si dimostrano elemento fondamentale ed assolutamente vincente di questo spettacolo. Anche qui una quarta parete – il teatro si allontana dal pubblico? – rappresentata da una rete metallica. Allontanamento dalla società certamente, ma la chiusura della Kane, artista scomparsa prematuralemente, viene esplicitata attraverso la regia di Sepe che ci introduce nei cunicoli della mente dell’autrice. Quattro spazi, in fondo alla scena, da cui emergono le figurine, stilizzate e caratterizzate, dei quattro personaggi. Neon e finestre ingabbiate da sbarre ci trasportano nella psiche dell’autrice. L’impossibilità di fuga dal proprio dolore si trasmette sul palcoscenico, dove la luce ovattata e biancastra, ritrovata anche in altri spettacoli di Sepe, a tratti diventa lucentezza e desiderio di respiro verso l’aria aperta, in altri momenti gelo profondo.  Ma i luoghi polverosi e scarni, assolutamente vuoti come quelli di un freddo obitorio, sono delimitati da finestre, sbarre e dalla rete metallica: al centro lo spazio ristretto per vivere, correre, reagire, camminare, urlare. I quattro attori spesso percorrono lo spazio correndo, sia verticalmente che orizzontalmente, o lungo percorsi diversi, ma alla fine rimbalzano violentemente e si bloccano davanti alla rete metallica. E anche noi spettatori osserviamo l’intero spettacolo attraverso la visione filigranata, sfocata, confusa, mai nitidia, della rete che ci è posta davanti. I personaggi si aggrappano, provano a scavalcarla, si arrampicano, dolorosi, disperati, non riescono a vivere e a fuggire da questa febbre, desiderio di vivere o di avere. Nonostante alcune scene si dilunghino eccessivamente, attraverso anche momenti di nudo integrale, durante i quali temiamo per l’incolumità degli attori che si arrampicano nudi sulla rete, o strisciano e cadono violentemente e ripetutamente per terra, appare notevolmente significativa la svestizione dei quattro personaggi e la successiva vestizione, mescolando ed indossando gli indumenti degli altri. In questo modo ogni singolo personaggio non risulta specificatamene e visivamente caratterizzato, come appariva all’inizio della narrazione, ma diventa figura ibrida, simbolo delle sfaccettature del singolo. Importante sottolineare questo elemento perché è ciò che emerge fortemente anche dalla lettura del testo. Quest’ultimo presenta rarissime didascalie, ed è costituito da un elenco di battute e di pensieri, apparentemente confusionari, pronunciati dai quattro personaggi: A,B,C e M. Il testo, così come i dialoghi dello spettacolo – peraltro le battute sono conservate integralmente – possono essere letti attraverso percorsi differenti, per approdare, però, ad un unico risultato. Si può leggere un dialogo tra due coppie, alternate ed interscambiabili, tra quattro persone che si conoscono o che non si sono mai viste, tra quattro storie collegate o forse ma intersecatesi. La difficoltà degli attori, che portano in scena una faticosissima performance fisica, è anche legata al testo, in cui la memoria e soprattutto l’incastro perfetto di tempi e di frasi, presumono un lungo lavoro ed un affiatamento notevole tra i quattro performers. Musiche ed ambientazioni completano un ottimo lavoro che rivederemo in stagione. Un plauso va all’intero cast, con particolare attenzione alle due donne, Dacia D’Acunto e Morena Rastelli, quest’ultima nei panni di una donna adulta, sfatta, delusa, frammentata, emozionante, intensa, non solo durante l’azione scenica, ma soprattutto nei momenti di stasi, in cui il suo volto non smette mai di osservare rabbiosamente il pubblico, attraverso uno sguardo carico di disperazione, mentre le dita si aggrappano alla rete. La Rastelli mette i brividi, pur con grande eleganza. Un’unica Sarah Kane in quattro personaggi: quattro, una, duplice, molteplice. Unica.
Ritorniamo al Fringe, occupandoci di PROMETHEUS #2,  presentato dalla compagnia ALTRO SGUARDO, ideazione, adattamento e regia di Raffaele Di Florio, con Antonello Cossia, Paolo Cresta, Valentina Gaudini. Il mito di Prometeo, l’incatenato, che sfida il volere ed il potere di Zeus, affermando la vicina caduta del Dio, è noto a tutti. La tragedia greca e la sua universalità devono comunque essere inserite all’interno di una contestualizzazione storico-culturale per poi creare una trasposizione contemporanea in cui alcuni elementi possono essere recuperati. In realtà, la tendenza spesso è alla comparazione e all’analisi tra ciò che veniva narrato nell’antichità e quello che similmente avviene ai nostri giorni,  ma è sempre utile non perdere mai di vista l’epoca e le motivazioni che hanno creato il testo originario. In questo caso parliamo del testo firmato da Eschilo, e quello di Roberto Lowell, che nel Novecento ne recupera la storia ed il mito, soffermandosi fortemente sulla condizione politica. La tragedia di Eschilo, in realtà, racconta il post quem dell’antefatto, il mito vero e proprio che descrive il rapporto tra Prometeo, i fratelli Titani, tra cui Cronos ed Atlante, quest’ultimi ribellatisi a Zeus e quindi puniti, la sua amicizia con Zeus e l’odio sorto a causa dell’attenzione del Titano nei confronti degli uomini e della loro creazione. La punizione divina è feroce e nel mito si inserisce anche il fuoco divino donato agli uomini ed il vaso di Pandora. Incatenato e torturato da un’aquila, Prometeo, poi liberato ( secondo una tragedia eschilea non pervenuta), rappresenta la lotta al potere imposto. Prometheus, colui che prevede e comprende in anticipo, in realtà è nome significativo, come di solito accade in tutta la cultura greca: pro “prima”, theus che ricorda il termine theos, cioè dio. “Prima del dio” o “davanti al dio”? La particella centrale “me”, a volte negazione, a volte elemento neutro della costruzione greca, potrebbe suggerici altro. Lasciamo ai linguisti e ai grecisti queste elucubrazioni e soffermiamoci sullo spettacolo. La compagnia sceglie di modernizzare e riprodurre in scena un’atmosfera cupa, un gothic revival di ispirazione anglosassone ottocentesca, ma sul fondo compare un’installazione video. Gli effetti sonori e luministici sono preponderanti, così come l’attenzione ai video che incorniciano la scena e gli stessi attori, donando profondità alla visione dello spettatore, caratterizzando l’universalità della tragedia attraverso un’ambientazione asettica e futuristica. Belle le scene in cui la proiezione dell’Universo e delle costellazioni, simbolo di divinità ed umanità insieme, si mescolano al canto della donna, modificato attraverso diversi effetti sonori. Il Prometeo interpretato di Antonello Cossia è incatenato ad una sedia. Ermes, messaggero degli dei interpretato da Paolo Cresta, è personaggio dark, a metà tra Il Corvo cinematografico ed i personaggi di Sin City. La donna, Valentina Gaudini, è maschera ed interpreta la corifea e nello stesso tempo IO, la sacerdotessa vergine voluta da Zeus ed ingravidata a tutti i costi. E proprio lei si volta indossando un’armatura che riproduce seni e ventre gravido, riproducendo il Coro e raccontando, in parte, la sua storia, attraverso la voce e la musica. La tragedia eschilea viene ridotta al dialogo tra Ermes, portavoce di Zeus, ed il Prometo affranto ma eroico e pronto a vincere, evidenziando l’ultima parte del testo antico. Effetti da Studios cinematografici –come il trucco da film horror sulla pelle di Cossia che riporta ferite purulente di grande veridicità – musiche ed effetti 3D. La commistione, però, tra testo ed effetti visivi sembra mancare, non fondendosi totalmente e presentando immagini video di grande bellezza, anche se a tratti ripetitive, che però distolgono l’attenzione dall’azione scenica in primo piano e dal testo. I punti di connessione tra recitazione e video spesso si perdono, quando, invece, la sensazione complessiva dovrebbe essere di totale unità e fusione. Limitare, inoltre, il testo al semplice dialogo tra Ermes e Prometeo significa concentrare l’attenzione solo sullo scontro politico. Il concetto di imposizione del potere attraverso la paura e la violenza, e dell’osservazione di esso da parte degli uomini, è elemento vicino alla storia contemporanea, ma nell’antica Grecia presentare al pubblico un tema del genere, durante eventi politici e religiosi in cui si mettevano in scena questi spettacoli, doveva far riflette e scuotere il pubblico profondamente. Ecco perché discorso della ribellione al potere, oggi non sembra emergere come un atto eroico né innovativo, a differenza, invece, di quanto la scelta drammaturgica di Eschilo avrebbe potuto impressionare il pubblico, in quell’epoca. Religione e politica si mescolavano alla storia, ed era impossibile scinderli, come era impossibile entrare in guerra senza il volere degli Dei, fino alle azioni più semplici del quotidiano. L’universalità del testo non viene distrutta ma gli antefatti e la contestualizzazione storica potrebbero rinvigorirne gli effetti. Vengono eliminati alcuni dei personaggi presenti nel testo antico, così come i racconti di viaggio e le genealogie, e del resto la scelta sembra giusta, all’interno di un contesto teatrale contemporaneo, non vicino alla tragedia classica e più propenso a portare in scena un testo ridotto, asciutto e vicino ad un tema specifico. Ma proprio il Coro, che qui solo in minima parte è presente attaverso le parole dell’attrice, nel testo di Eschilo pronuncia alcuni dei concetti più importanti dell’intera tragedia, che ci svela, a distanza di secoli, quanto fosse doloroso convivere con l’immagine di divinità potenti, politiche e profondamente meschine, in quanto più umane degli stessi uomini: <<[…]gli dèi, i grandi signori, non gettino l’occhio su di noi se al loro amore non si può sfuggire; è guerra non guerreggiabile, via che chiude ogni via, non si sa che si diviene, non si vede per dove si può scampare a un pensiero di Zeus>>. La sottomissione e la derisione sono gli elementi che caratterizzano Ermes in scena, sicuro del suo legame con Zeus, mentre Prometeo si contorce nel suo incatenamento. Alla fine l’evoluzione, il deus ex machina, lo scioglimento, non sembrano palesarsi. Lo spettacolo mantiene sopito il climax, perseguendo la scelta del Prometeo liberato, e quindi vincitore, ma mantenenedo un ritmo uguale durante tutta la performance, limitando, dunque, lo sviluppo emozionale.