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Borina (Liboria) Serrafalco non era bella e nemmeno era troppo brutta, era alta soprattutto, molto alta, e questo non era certo un gran vantaggio se una donna voleva convolare a giuste e doverose nozze, anzi era proprio un problema e Borina lo sapeva così bene da non farsi troppi scrupoli quando a farsi avanti fu Cataldo Liuzzo, pilorusso, basso, tarchiato e brutto forte: si sposarono e sarebbe stato un matrimonio come tanti nella sonnolenta provincia siciliana appena a nord di Catania. Tutto bene? No, perché Cataldo se ne va all’ improvviso, emigra in Australia, se ne va a cercar fortuna dall’altra parte del mondo e ci resterà per 30 anni senza mandare

alla moglie né un soldo né una lettera, niente. E certo non da solo, ma con una donna – una poco di buono ovviamente – portoghese con la quale ha persino figli. E Borina? Né sposata, né vedova, ma in effetti più vedova che sposata, “vedova bianca”, cosa può fare? Senza una precisa definizione sociale, senza la rispettabilità di uno status regolare ed accettato, senza un uomo accanto, lei ancora forte vitale ma senza una benché minima possibilità di rifarsi una vita. Comincia allora a inventarsi una perfetta esistenza da vedova, con tanto di abiti a lutto, raffinatissimi e adatti ad ogni occasione del giorno, e visite quotidiane, puntuali e amorevoli, a mariti immaginari, seppur concretamente seppelliti (e dimenticati) nei cimiteri dei diversi paesi del circondario. Tutti i santi giorni, esclusa la domenica, perché la domenica sarebbe stato troppo alto, e certo mortificante per lei, il rischio di trovarsi a tu per tu con qualche vedova reale. Una vita così: bizzarra certo, amara ma, in fin dei conti, persino ordinata dentro a un equilibrio che rasenta, e talvolta attraversa, una pazzia lucida, paradossale, di chiarissima impronta pirandelliana. Fino a quando, dopo trent’anni, ecco che una sera Cataldo torna in patria, torna al suo paese e, come se nulla avesse fatto e nulla avesse da spiegare, se ne torna a casa sua e tranquillamente pretende dalla moglie tutto ciò che qualunque maschio può tranquillamente pretendere dalla legittima moglie. Ma Borina saprà reagire e così anche la domenica avrà la sua legittima tomba da visitare. È evidente la struttura intimamente teatrale di questo racconto/monologo di Silvana Grasso (tratto dalla raccolta “Pazza è la Luna” del 2007) ed è evidente che, a portarlo in scena, occorre essere in grado di ricostruirne, da una parte, la carnale sapidità del tessuto linguistico e, dall’altra, il connettivo socio-culturale ed antropologico che ne può credibilmente situare il comico paradosso nella realtà. In altre parole è evidente che per rendere teatro questo bel pezzo di scrittura letteraria, sono necessarie le doti interpretative e l’intelligenza di un’ottima attrice. È quanto vien fatto di pensare in relazione a “Manca solo la domenica” il gradevole monologo di e con Licia Maglietta (produzione Teatri Uniti di Napoli, 2009) che si è visto a Gibellina nel contesto delle Orestiadi dirette da Claudio Collovà e giunte quest’anno alla XXXIV edizione. In scena, insieme con la Maglietta, spiccano sicuramente la presenza e l’intelligenza ironica del fisarmonicista Vladimir Denissenkov (storico collaboratore di Moni Ovadia) capace di dare alla sua musica il suono e il respiro corale di un intero contesto sociale che assiste alla tragicomica vicenda di Borina e con essa interagisce e dialoga.

Manca solo la domenica
di Licia Maglietta
dal racconto di Silvana Grasso
musiche scritte ed eseguite da Wladimir Denissenkov
luci Cesare Accetta
realizzato da Lucio Sabatino
costumi Katia Esposito
suono Daghi Rondanini
direzione tecnica Lello Becchimanzi
produzione Teatri Uniti (Napoli)