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<<[…] Napoli ossimorica latente…>>. Non avremmo potuto cominciare questa recensione in maniera differente, poiché l’epiteto alla città da cui ricominciamo, ancora una volta, questa nuova stagione teatrale che ancora stagione non è, rappresenta l’essenza dell’intero spettacolo, del testo, del messaggio e della natura del luogo partenopeo. Cominciamo così questo settembre 2015, spostandoci sui Campi Flegrei, luogo mistico, surreale e suggestivo, che sembra “altro” da Napoli ma che inevitabilmente è influenzato prepotentemente dalla città vicina, luogo che risuona dei colori e degli odori dell’intero Mediterraneo e che in alcuni scorci ricorda

la stessa Sicilia: questo il  luogo da cui nasce e su cui si fonda la prima edizione di EFESTOVAL FESTIVAL DEI VULCANI. Il Festival dei Campi Flegrei nasce da una delle firme e delle voci più importanti della drammaturgia italiana contemporanea, nativo di questi luoghi e attento alle sorti di alcune delle location suggestive della Campania, Mimmo Borrelli crea l’Efestoval, in scena dal 5 al 26 settembre. Non si tratta solo di teatro, nonostante l’intento artistico principale sia rivolto alla rappresentazione scenica di alcuni testi della drammaturgia contemporanea legati ai luoghi “vulcanici”, intesi metaforicamente come luoghi binomiali di morte e di ricostruzione. Ma parliamo anche di un progetto che si protrae da lungo tempo e che coinvolge 50 giovani under 35 nell’organizzazione, gestione e nelle attività di accoglienza che costellano l’intero Festival. Ricordiamo il progetto Flamma Ventus: Giovani indigeni di una terra ardente e le stesse parole di Mimmo Borrelli, il quale, prima di aprire ufficialmente il Festival con il suo spettacolo NAPUCALISSE, spende alcuni minuti per raccontare brevemente il percorso di recupero  che ha toccato  alcune zone situate nell’area dei Campi Flegrei, come il Parco Cerillo, a Bacoli, in cui va in scena “Napucalisse”,  ma anche il Lago Miseno, fino allo stesso stabilimento Ilva di Bagnoli, progetto che ha coinvolto non solo i giovani ma anche numerosi abitanti della zona.
Sulla collina del Parco Cerillo il pubblico si accomoda in un piccolo anfiteatro naturale, osservando dall’alto verso il basso Borrelli, ascoltando le sonorità e le partiture vocali che emergono dai suoi testi, ammirando sullo sfondo la Baia. Ed in effetti quale vista migliore se non quella che scende, ora scoscesa ora dolce, fino al mare, ci poteva regalare uno spettacolo che ha come protagonista il Vesuvio? Le parole introdotte da Borrelli, all’inizio dello spettacolo, descrivono le terre di vulcani e di fuochi, avvicinando Napoli alla Sicilia, per cultura e geografia simili, ma anche per quei fuochi malevoli che incancreniscono queste popolazioni. La caratterizzazione ossimorica di cui parlavamo all’inizio di queste righe è insita nella natura napoletana sin dall’antichità: chi conosce Napoli  impara a convivere con la duplice faccia di una stessa medaglia. Borrelli presenta sulla scena un Vesuvio-Lucifero, angelo di vita e di morte, simbolo di distruzione che presagisce la ricostruzione; l’autore-attore pone sul piano dell’osservazione alcune “maschere” smembrate, come cocci di terracotta che stanno perdendo i pezzi, svelandone una natura sottostante. Lucifero, l’angelo cacciato dal Paradiso, si incarna nel Vesuvio, che diventa luogo di culto, di preghiera, di offesa, di disperazione, immenso altare che incombe sulla città. Ciò che di cristiano può esserci nella figura luciferina e nel luogo, che in parte ricorda il cammino della vita, certamente di memoria dantesca, decade nella più viscerale visione mitologica ancestrale. Quella divinità di cui si temevano i fulmini incombe sotto forma di Vulcano, e assorbe le preghiere ferite degli umani, le proteste adirate del giovane camorrista, la curiosità e la purezza dei bambini venuti a sbirciare fin lassù. Un’enorme pentola a pressione e vaso di Pandora che non vuole esplodere ma che è costretta a farlo, spinta dai comportamenti di quel popolo disfatto e canceroso, non a caso definito “latente” .
Il diverso punto di vista che ci propone Borrelli nasconde – ma neanche troppo - una ricerca antropologia interessante e suggestiva, che parte inevitabilmente dal concetto di morte- ricostruzione, all’interno del già citato discorso ossimorico che caratterizza l’intero spettacolo. Le popolazioni che vivono sotto i vulcani riconoscono la fertilità distruttiva di una colata lavica che ricopre ma rigenera, qui naturalmente intesa in senso metaforico. E se ricordiamo, la stessa mitologia collocava Efesto - ma anche il Ciclope-  all’interno dell’Etna per produrre le armi indispensabili alle guerre e per forgiare i fulmini di Giove, simboli di morte ma necessari per mantenere l’equilibrio dell’umanità intera. Lo stesso Saggio, personaggio che Borrelli pone come interlocutore di Vesuvio-Lucifero, definito Il Vecchio Saggio-Cinello, altro non è che Pulcinella, il quale è divinità minore, intermediario tra il Lucifero, dio del Vulcano, ed il popolo napoletano sottostante. Del Pulcinella decadente e morto parlava Libero Bovio in un suo testo teatrale, ergendolo a simbolo di una Napoli che nel passaggio tra Ottocento e Novecento si trasformava e che, per i Napoletani, sembrava cambiare così velocemente da apparire decadente. Il Pulcinella di Borrelli è smascherato e l’autore raggiunge una delle intuizioni drammaturgiche più sottili ed eleganti: se le maschere nell’antichità rappresentano la morte, smascherare il Pulcinella significa strappare davvero la cotenna a Napoli! Intuizione su genialità, anche l’angelo decaduto, Lucifero, diventa anima che pulsa nel Vesuvio, che minaccia e rigenera. L’immagine cristiana della divinità e della Sacra Famiglia decade nell’ottica del potere giusto e consono che, invece, chiude gli occhi e diventa ipocrita davanti a coloro che dovrebbero davvero essere salvati. I “mostri” indispensabili nella lotta tra bene e male, sin dai tempi più antichi ricordano il Ciclope accecato e qui, il Lucifero arrabbiato ma in realtà profondamente riflessivo e consapevole di aver donato ad un popolo irriconoscente, secondo le sue possibilità e nelle sue vesti di Vulcano, fertilità e speranza. Anche il Killer di Cartone, il giovane personaggio introdotto nella seconda parte dello spettacolo, è una definizione ossimorica: ispirandosi ad un fatto di cronaca realmente accaduto, Borrelli crea il giovane che inveisce e punta la pistola a Vesuvio ma che non ottiene risposta. Simbolo della cecità causata dal male, il giovane non capisce chi è il vero responsabile della “Napucalisse”. Gioco di parole che si potrebbe leggere “n’apucalisse”, un’apocalisse, ma che naturalmente richiama il nome della città; gioco che, tra le pagine dell’intero testo, è corredato da numerosi incastri ed intrecci di suoni, allitterazioni, assonanze, epiteti, giri di parole, modi di dire. L’intero spettacolo, diviso in movimenti, diventa una preghiera vera e propria, dal Padre Nostro trasformato, napoletanizzato e reso sacro-profano, rivolto al dio Vesuvio-Lucifero, fino all’atto di dolore, all’invocazione del “Cristo Pietà”, che diventa un rosario lamentoso, una preghiera da flagellazione del Venerdì Santo ma stavolta rivolta a Napoli. Lo spettacolo si può in realtà definire una lettura drammatizzata in cui Borrelli interpreta tutti i personaggi. L’inserimento, da parte di Pulcinella, del racconto del matrimonio popolare e napoletano, alla richiesta di Vesuvio che gli chiede di raccontargli la città, spinge inevitabilmente il pubblico alla risata. La “descrizione – invocazione” alla città di Napoli è lunghissima e caratterizza gran parte del copione e della parte finale della messa in scena: non a caso il movimento si intitola “Lava”. Come una colata lavica lenta ed inesorabile che prende velocità e a tratti rallenta, Borrelli riesce a descrivere l’intera città di Napoli, la sua vita, il suo passato ed il suo presente, le sue malattie e le sue rinascite, attraverso lunghissimi minuti in cui egli stesso si scioglie, diventa lava, rinasce, si raffredda, si scioglie di nuovo, mentre le parole scendono dalle pendici e arrivano fino al mare, sulla baia. Pubblico affascinato che applaude calorosamente, accanto a Borrelli, l’immancabile Antonio Della Ragione il quale riproduce suoni e musiche dal vivo, attraverso strumenti antichi, campanelli, piccoli tocchi che riempiono l’aria, mentre le brezza marina della tarda sera risuona, a tempo, nei microfoni.
I testi di Borrelli sono costruiti solidamente su un’ampia ricerca linguistica ed antropologica, sulle conoscenze personali dell’autore, sui fatti realmente accaduti, su un suono che è difficile riprodurre perché unico: nonostante la difficoltà di comprensione che uno spettatore non campano potrebbe avere all’inizio, il segreto per godere a pieno degli scritti di Borrelli è chiudere gli occhi perché è inevitabile il coinvolgimento suggestivo vissuto dal pubblico. Bisogna davvero entrare nell’antro della Sibilla, a Cuma, scendere nelle viscere di questa cultura ed uscirne in possesso di grandi verità.

NAPUCALISSE
5 settembre 2015
EFESTOVAL FESTIVAL DEI VULCANI
CAMPI FLEGREI (NAPOLI)
Napucalisse
Di e con Mimmo Borrelli
Musiche dal vivo di Antonio Della Ragione