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Uno di quei lavori che quando lasci la sala teatrale ti rimangono dentro, che ti riconciliano col teatro, che  ti fanno riflettere su passato e presente e su come sia importante non dimenticare quanto di tragico può provocare l’oscura cattiveria umana. La pièce immediata, di notevole impatto drammaturgico e sorretta da un testo scorrevole, chiaro e lucidamente analitico, è “Morte di un giudice” di Giovanni Coppola, proposta al Teatro del Canovaccio di Catania, nell’ambito della stagione di prosa 2015-2016 della struttura di via Gulli 12, gestita da Saro Pizzuto, Giuseppe Calaciura e Salvo Musumeci. Lo spettacolo, in circa 50’, è folgorante, appassiona per la scrittura limpida del testo, per l’accattivante impianto scenografico, per la regia e l’interpretazione dei tre validissimi attori: Saro Pizzuto, Riccardo Vinciguerra e Laura Giordani che agiscono su una

scena intrigante e particolare, formata da pochi, ma significativi oggetti e curata da Gabriele Pizzuto ed Elisabetta Censabella.  Lo spettatore viene condotto per mano, in modo lieve e coinvolgente, nella dimensione del cosiddetto ed a volte abusato “Teatro civile”. Attraverso la voce, i suoni, le litanie, i canti, dei tre protagonisti viene ricordata e raccontata l’ennesima vicenda di sangue siciliana, quella del giudice Rocco Chinnici, coraggioso magistrato ed ideatore del temuto “pool antimafia”, barbaramente ucciso il 29 Luglio del 1983 da “Cosa nostra”. L’omicidio del giudice, che provocò altre vittime, inaugurò l’attacco della mafia stragista allo Stato ed a questo seguirono altre vittime tra i magistrati, le forze dell'Ordine e innocenti casualmente coinvolti.
A raccontare, o meglio a ricordare la tragedia della morte del giudice Chinnici, sono due morti innocenti che prendono vita: il portiere dello stabile sventrato dal tritolo e un giovane poliziotto della scorta. I due, vestiti di bianco, raccontano episodi della loro vita, parlano dell’umanità del giudice, ma soprattutto esprimono la loro rabbia, il loro disappunto nei confronti di un mostro incontrollabile, disumano che tutto controlla e guida in Sicilia: l’oscuro potere mafioso alimentato dalla linfa proveniente dai palazzi della politica, dagli imperi economici dove agiscono i cosiddetti “cani di pezza con le molle al collo” che sanno dire si all’inquietante presenza della criminalità sempre più organizzata e presente, ieri come oggi, in una Sicilia soffocata, impacchettata, impaurita.
Sulla scena a raccontare la tragedia, in una dimensione irreale, è Stefano, il portinaio dello stabile dove viveva Rocco Chinnici. Stefano e il giudice erano amici e s’intrattenevano spesso, una volta chiuso il portone alle loro spalle, in momenti che avevano il sapore della normalità. Stefano si sofferma su quel 29 luglio del 1983, su quella calda giornata di una Palermo testimone perenne della lotta tra Stato e Mafia, dove i confini tra legalità e “accordi” sono davvero labili. Poi c’è il racconto del giovane poliziotto della scorta di Chinnici che parla della lealtà del magistrato, del rispetto che aveva per la scorta, della sua famiglia e di quando, contro la volontà del padre, aveva scelto di fare il poliziotto perché amava la sirena delle volanti.
I due raccontano sensazioni e lo fanno con tanta amarezza, esprimendo la loro indignazione per un potere mafioso che opprime la Sicilia e tutti quei siciliani che non si ribellano e che ogni giorno abbassano la testa, cedono ai ricatti ed ai compromessi.
Alle spalle di Stefano e del poliziotto, che alla fine tornano ad essere ricoperti di un pietoso velo bianco, c’è una inquietante figura nera ed incappucciata, una Sicilia e morte, nella doppia veste di vittima e carnefice, che manovra e che è manovrata e che allo stesso tempo, tra suoni arcani, nenie e canti, piange i suoi figli caduti per mano di un mostro occulto, implacabile e che col tempo cambia pelle e si rinnova, che si annida nel Dna dei siciliani. E nel finale l’inquietante figura muta, si libera del suo costume e diventa madre misericordiosa che placa il dolore dei suoi morti, delle due vittime, le ricopre con il sudario e poi chiude la pièce con un appello a quella Sicilia desolata, scoraggiata, impaurita, monito alle coscienze assopite.
Il testo di Giovanni Coppola è davvero interessante, incisivo, carico di messaggi ed induce il pubblico ad indignarsi, come le vittime in scena ed a riflettere sul fenomeno culturale e sociale che è la mafia, oltre a non fargli dimenticare tutte le stragi e le vittime innocenti provocate da “Cosa Nostra”.
Efficace ed azzeccato, nella sua semplicità ed allo stesso tempo intrigante, l’impianto scenografico di Gabriele Pizzuto ed Elisabetta Censabella incentrato soprattutto sull’oscura figura dell’incappucciato con tanto di fili che, attraverso suoni cadenzati e canti detta i tempi al racconto dei due morti che prendono vita. Pregevole l’adattamento teatrale del testo e la regia, scorrevole e mai stancante, di Laura Giordani, apprezzata ed esperta attrice.
Sulla scena, nei panni del portiere Stefano, un maturo e convincente Saro Pizzuto, mentre Riccardo Vinciguerra disegna con delicatezza e rabbia il personaggio del giovane poliziotto e Laura Giordani si divide nei panni del misterioso incappucciato, simbolo del male silenzioso ed occulto ed in quello della madre misericordiosa e che nel finale induce i siciliani a non dimenticare ed a ribellarsi.
Per l’autore Giovanni Coppola (capace di suscitare emozioni, di far pensare il pubblico, allontanandolo - per una sera - dalla fobia di smartphone, facebook e twitter) e per i tre interpreti alla fine i meritati applausi degli spettatori,  per un lavoro, ripetiamo, sicuramente da vedere e da consigliare a chi ama confrontarsi con i problemi dei nostri giorni ed a chi, ancora, si indigna per come spesso si dimenticano le vittime, le tragedie di Sicilia, e non solo e come, invece, va avanti la diabolica opera della piovra mafiosa, nell’Isola ed in tutto il paese.
In scena, quindi, grazie agli attori del “Canovaccio” di Catania ed all’autore una riflessione sulla Sicilia degli onesti che non si arrende, che vigila, che non nasconde la testa sotto la sabbia, ma che invece ricorda, si ribella, reagisce contro il malaffare, l’omertà, cercando così il definitivo riscatto di un popolo da sempre oppresso e dominato, adagiatosi negli anni alle influenze ed al potere degli invasori.
Spettacolo da far veicolare sicuramente nelle scuole per le nuove generazioni, in quanto di alto spessore come autentico “teatro civile”, di testimonianza e di conoscenza, senza ovvietà e retorica e senza precipitare nel solito “dejà vu”.

“Morte di un giudice”
di Giovanni Coppola
Adattamento e regia di Laura Giordani
con Saro Pizzuto, Riccardo Vinciguerra e Laura Giordani
Scenografie di Gabriele Pizzuto
Realizzazioni scenografiche di Elisabetta Censabella
Assistente alla regia Fiorenza Barbagallo
Stagione Teatro del Canovaccio di Catania- 21, 22, 23, 24-30 e 31Gennaio 2016
Foto di scena di Gianluigi Primaverile