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È una costruzione drammaturgica complessa quella che s’è vista concludersi, dal 3 al 7 febbraio scorsi, col debutto nazionale di “Lampedusa Way”, terzo segmento (dopo “Lampedusa Beach” e “Lampedusa Snow”) della “Trilogia del naufragio” di Lina Prosa (drammaturga e regista, premio della critica teatrale 2015) meritoriamente prodotta in tre anni consecutivi dal Teatro Biondo di Palermo. In scena, ancora nella Sala Strehler del Biondo, ci sono due tra le più solide e versatili personalità del teatro italiano, ovvero Maddalena Crippa nel ruolo di Mahama e Graziano Piazza, nel ruolo di Saif, mentre scene luci e costumi sono curati dal Paolo Calafiore e da Mela Dall’Erba. Una solidità attorale giustamente voluta da Lina Prosa perché questa volta non si trattava soltanto di rendere il doppio movimento interiore di sogno/vita e delusione/morte di due giovani migranti

africani clandestini (ovvero la discesa della giovane Shauba, mentre affoga nei fondali di fronte alla spiaggia di Lampedusa, e il movimento ascensionale e mortale di Mohamed, mentre da quella spiaggia si allontana per salire in montagna), ma di attraversare credibilmente (e di accompagnare il pubblico in) un territorio ben più vasto e reso arduo da pensieri, attese, difficoltà, affetti, sospensioni, speranze, aspettative, frustrazioni. Mahama e Saif però non sono affatto clandestini ma, essendo regolarmente autorizzati, si trovano a Lampedusa per provare a ritrovare i loro due giovani amici o congiunti. Inutilmente nella loro ricerca tentano di utilizzare i ricordi e le speranze dei due giovani in patria, tentano di compulsare l’ambiente di Lampedusa (la spiaggia certo, le strade, i colori del mare e del paesaggio, le barche, ma poi anche il vigilie urbano, il capitano, il postino, i disoccupati che protestano per la loro condizione, l’ambasciatore), inutilmente si aggrappano alla speranza, fragile, pura, mal riposta, di trovare quel misterioso “capitalista”, col suo potere ferreo e pervasivo, che possa spiegar loro il senso di quanto è accaduto a quei loro amati ed indimenticati ragazzi e magari restituirne i corpi. Tutto inutile al fine pratico del ritrovamento dei due ragazzi: il pubblico del resto, con un effetto meta-teatrale che riguarda i due segmenti precedenti della drammaturgia (e che implica l’opportunità, se non la necessità, di mettere in scena senza soluzione di continuità questa trilogia), è ben consapevole dell’impossibilità di tale tentativo. A poco a poco, tuttavia, tra questi due personaggi si sviluppa una relazione di solidarietà, di ascolto, di accoglienza della fragilità, di consapevolezza intelligente (e appunto intelligentemente realizzata dai due attori) che l’unico modo (way) per ritrovare Shauba e Mohamed è incontrarli nel senso profondo della loro avventura, comunque sia andata, nel riviverne la sfida, vitalissima seppur mortale, dell’avventura e persino quella della clandestinità. È evidente che quello dell’emigrazione dal sud al nord del mondo (in fuga da miseria, guerre fame, povertà) è un fenomeno di così straordinarie proporzioni che difficilmente se ne può parlare definendo con completezza confini e motivazioni generali, anche perché si tratta di un fenomeno all’interno del quale si condensano milioni di storie personali, di motivazioni, tragedie e sogni che, proprio in quanto personali, sono difficilmente rappresentabili, dicibili, senza semplificazioni inevitabilmente bugiarde. Ed ecco allora che il gesto, prima drammaturgico e poi registico, di Lina Prosa scarta e si volge decisamente in direzione della costruzione di un mito teatrale, ovvero di un dispositivo drammatico e poetico che, pur raccontando la realtà, pur partendo da essa e ad essa restando solidamente ancorata, si presenta poeticamente aperta proprio sulla soglia del mistero dell’umano e del suo insopprimibile anelito politico a verità e bellezza: Mahama e Saif sono già vecchi quando scelgono di non tornare indietro da sconfitti e di sfidare anch’essi la clandestinità: ballano insieme sulle note di Frank Sinatra ed è una bellissima e poeticissima immagine che da sola vale tutto lo spettacolo.