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Nuova tappa nell’interessante percorso della “Rassegna di Drammaturgia Contemporanea” del Teatro Stabile di Genova, in scena al teatro Duse dal 22 Giugno al 2 Luglio.
Pièce datata 1999 del drammaturgo e regista Catalano Sergi Belbel, anche Direttore del Teatre Nacional de Catalunya, è una eterodossa e singolare peripezia, quasi una andata e un ritorno ovvero un girotondo, tra scienza ed estetica che nella accurata sintassi drammaturgica trova un senso sospeso tra il figurativo e lo psicologico. Il “tempo di Planck”, dal nome del fisico tedesco Max Planck che l’ha formulato, in effetti indica la più piccola entità temporale misurabile (pari a 0 elevato alla meno 43 secondi) e quindi, suggerisce il drammaturgo, quanto di più vicino al “tempo della morte” siamo riusciti ad immaginare. Su questo, a mio avviso, “gioca” la commedia, sul contrasto cioè tra l’ansia di tutto misurare

e quantificare che caratterizza la nostra contemporaneità, e l’incapacità di concepire nella morte quell’assenza di quantità nell’attimo del suo “succedere”, assenza che ne fa una entità non misurabile in quanto unico passaggio percepibile al nulla dell’eternità. Questa incapacità di misurare e quindi comprendere appare a Belbel, credo, la causa dell’espulsione della morte dal nostro orizzonte, soggettivo e collettivo, espulsione che produce quella perdita di senso e quella angosciosa liquidità che caratterizza i tempi presenti.
Il Sig. Planck è in punto di morte, assistito dal giovane Max e circondato dalla moglie e dalle quattro figlie. Il punto della morte diventa così, per restare nella fisica quantistica, una sorta di “buco nero” in cui tutto precipita per la forza di gravità senza ritorno, precipitano le soggettività di ciascuno, soggettività peraltro difese disperatamente, e precipita l’apparente oggettività, altrettanto aspramente difesa, di quella vita familiare che ha percorso gli anni e dagli anni è stata misurata.
Quaranta tre scene che cercano inutilmente, ciascuna a suo modo, di intercettare e fissare il tempo della morte mentre questa incombe su quell’enorme letto a lato della scena, in un movimento che trascende impercettibilmente nel metafisico mentre contemporaneamente resta stabilmente radicato nel flusso della vita di ciascuno.
La regia di Mario Jorio ne dà, ancora una volta, una lettura accurata ed acuta, transitando quella sintassi metafisica in una scrittura scenica dai toni surrealistici e talora grotteschi  riuscendo a proiettare figurativamente in scena il tempo come movimento, come movimento nello spazio.
Con scelta efficace, infatti, l’alternarsi delle quaranta tre scene è segnato ed insieme inglobato in una sorta di carillon umano, dai ritmi suggestivi ed evocatori, con gli attori che ci riportano ad antichi soprammobili che dettavano il tempo dell’infanzia.
Una scrittura scenica che riesce a districarsi negli intricati livelli significativi di una drammaturgia che alterna onirismo ed ironico senso di realtà, riferimenti sociali a riferimenti inconsci, riuscendo a liberare il movimento di ciascuno di essi ma man mano isolando quel punto oscuro e atemporale, il momento della morte.
Una drammaturgia dunque ricchissima di suggestioni, scientifiche e filosofiche, ma anche di corrispondenze drammaturgiche, a partire dal shakespeariano “Lear” evocato nell’esordio del dramma e ripetutamente suggerito nello sviluppo delle relazioni familiari, in primis tra padre morente e figlie.
Una drammaturgia che mantiene e custodisce, nelle pieghe del suo svolgersi con tono da commedia, domande cui dovremmo prima o poi rispondere, domande di senso che la nostra Società e la nostra epoca teme e cerca di dimenticare, a partire dal paradosso per il quale solo mettendoci di fronte alla morte, misteriosa porta per un oltre sconosciuto, possiamo cercare di dare autenticità alla nostra vita.
Scrive in proposito Epitteto, nel suo “Manuale”: “La morte, l’esilio e tutto ciò che appare terribile ti siano quotidianamente dinanzi agli occhi, più di ogni altra cosa la morte: e non avrai mai alcun pensiero meschino né desidererai mai nulla oltre misura”.
La bella messa in scena di Jorio, le cui qualità registiche meritano a nostro avviso ulteriori e più ampie occasioni, si è avvalsa della versione italiana di Enrico Iannello collaborato da Angelo Rossi. In scena i giovani e bravi Sara Cianfraglia, Alice Giroldini, Sarah Pesca, Antonio Bannò, Isabella Giacobbe, Martina Limonta e Kabir Tavani.
Uno spettacolo ben riuscito su un testo molto interessante, un successo con molti applausi all’esordio.

Foto Lanna