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Dovremmo cominciare dal lungo titolo, cercando di analizzarne il significato, comprensibile, però, solo alla fine della visione dello spettacolo. L’ode telefonica è rivolta ad amori abbandonati, o meglio ad amanti abbandonati da amori inesistenti, fittizi, desiderati, inventati. L’ode è chiromantica perché il palcoscenico si trasforma in un vero e proprio altare da sacrificio, in un tavolo su cui leggere le carte; un rito, insomma, durante il quale si cerca di sdrammatizzare, di purificare il proprio animo dalla sporcizia e dall’abbandono, pur rimanendo “ingabbiati” in una condizione di prigionia sentimentale. Un rito che coinvolge i singoli personaggi e che, nello stesso tempo, chiama a raccolta l’intera città di Napoli, testimone scomoda, mater dolorosa, peccatrice e punitrice. Roberto Solofria e Sergio Del Prete, contemporaneamente interpreti e registi, recuperano le anime profonde dei personaggi creati dalla penna di Enzo Moscato, di Annibale Ruccello, di Francesco Silvestri, di Giuseppe Patroni Griffi, grandi drammaturghi campani che rivivono sul palcoscenico del Piccolo Bellini di Napoli, dal 7 al 12 novembre. Certamente è evidente quale sia il grande vantaggio che la

drammaturgia di riferimento – per lo più spezzoni di testo – possa donare alla compagnia, in quanto questa utilizza dei testi tanto conosciuti da essere diventati, ormai, dei veri e propri classici, ma soprattutto ri-conosciuti e riconoscibili da un pubblico attento e memore dell’importanza della cosiddetta Nuova Drammaturgia Napoletana. La scelta di costruire l’intero spettacolo su spezzoni di testo potrebbe condurre, però, al rischio di un accorpamento di stili completamente differenti e, soprattutto, alla costruzione di una struttura testuale che non abbia una continuità, ossia che non presenti una trama lineare. Questo spinge gli spettatori verso una comprensione in cui sia necessaria una lettura “altra” dello spettacolo, ossia un’attenta osservazione che si allontani dal concetto di percorso cronologico o di racconto, per soffermarsi, invece, su un particolare filo conduttore, che è già contenuto all’interno del titolo. La caratterizzazione della scrittura di ogni autore emerge fortemente ed è colta soprattutto da quegli spettatori che conoscono bene questa particolare drammaturgia, sviluppatasi tra gli anni ’70 e gli anni 80’ del Novecento. I personaggi citati sono per lo più travestiti o omosessuali, la cui natura è subito identificata e messa da parte dallo spettatore, attratto immediatamente dall’allestimento scenico. Quest’ultimo, oltre alla complessa, colorita, drammatica, comica, profonda e mutevole, interpretazione dei due bravi attori - in particolare di Del Prete – è l’elemento che permette una costruzione originale e accattivante, ma soprattutto che allontana il rischio di “imitazione” degli allestimenti e delle interpretazioni del passato, ai quali lo spettatore potrebbe erroneamente, seppur inconsciamente, far riferimento. Dunque, partendo da una drammaturgia conosciuta e proseguendo attraverso una frammentazione del testo originario, si arriva ad un allestimento completamente differente in cui la drammaturgia di riferimento è un “pretesto” testuale per raccontare in maniera grottesca, allucinata e a tratti divertente, quel rapporto tra microcosmo intimo e macrocosmo, tanto caro agli autori citati. Ciò che sorprende è sicuramente la scelta di governare tutto l’apparato sonoro e luministico dal palco, ossia gli stessi attori diventano fonici e tecnici delle luci, gestendo il tutto durante la messinscena, attraverso incastri perfetti e piccoli oggetti low cost ( basti pensare allo stereo con cassetta per la colonna sonora). Grande prova, dunque, per questi attori che si presentano al pubblico dentro gabbie multifunzionali: esse rappresentano gli inferi, i bassifondi, ma anche l’allegoria dell’altare da martirio, fino all’ascesa divina, diventando base di statue sacro-profane parlanti, ed infine tavolo da rito chiromantico, in una bellissima scena in cui tutta la sala e lo stesso palcoscenico sono avvolti da un buio profondo, rischiarato da piccole fiammelle, simili a quelle dei cimiteri o quelle accese per gli ex-voto. L’ode telefonica, ricordando Ruccello, diventa vera e propria preghiera, come quella litania ripetuta dall’attore che invoca e impreca contro la stessa Napoli. Emergono, dunque, le sonorità subito riconoscibili della lingua di Moscato, il racconto ed i personaggi di Ruccello, in particolare Jennifer, l’eleganza della penna di Patroni Griffi, il surrealismo di Francesco Silvestri. Gli attori alternano scene, personaggi e stili di parola, fondendo il frammentario testo con una certa abilità recitativa ed con le atmosfere oniriche e grottesche. Sulla Nuova Drammaturgia Napoletana e sulla drammaturgia campana di fine Novecento è stato riportato moltissimo, non solo dagli studiosi, ma anche dai giornalisti, dagli appassionati, dagli stessi attori e  dai registi che ne hanno assaporato la complessa natura. Sicuramente la volontà della compagnia – ricordiamo la coproduzione Mutamenti/Teatro Civico 14 e Murìcena Teatro – è anche quella di far emergere un’attenta osservazione sulla grande ossessione narrata, ossia l’amore. Bisognerebbe però, sottolineare che l’esito positivo di questo spettacolo, che conta già diverse repliche negli ultimi anni, è legato sicuramente alla maniera quasi “artigianale” della messinscena, concetto da intendersi non in accezione negativa, bensì come attenzione estrema al gesto, alla voce e alla mimica, che i due attori e registi riportano sulla scena come se fossero davvero degli “artigiani teatrali”. La scelta testuale è importante, ma certamente è rischiosa, qualora si pensasse ad un paragone con gli autori e  con gli interpreti di un tempo, ma nello stesso tempo è personalizzata ed inedita, poiché gli interpreti ne colorano l’aspetto attraverso sfumature assolutamente personali. Proprio questa scelta spiazza il pubblico di intenditori, che inevitabilmente è spinto ad un confronto con il testo originale e che rimane stupito davanti alle scelte originali della compagnia: questo dimostra quanto sia evidente il recupero di una certa drammaturgia, ma soprattutto una scelta scenica ed interpretativa completamente lontana dal modello originale.
Foto Marco Ghidelli

CHIROMANTICA ODE TELEFONICA AGLI ABBANDONATI AMORI
Piccolo Bellini Napoli
7- 12 novembre 2017
da Enzo Moscato, Giuseppe Patroni Griffi, Annibale Ruccello, Francesco Silvestri
diretto e interpretato da Roberto Solofria e Sergio Del Prete
produzione Mutamenti/Teatro Civico 14 e Murìcena Teatro

Foto Marco Ghidelli