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Oggi nella filosofia e nella psicoanalisi esiste una «filologia», la “filologia” dell’ Altro. Il Novecento riscopre l’alterità’ dell’altro.

La sua differenza, e anche la sua estraneità, e fa affidamento proprio su questa “distanza”. Da Nietzsche la filosofia dell’ “Altro” si è trasformata in metafisica dell’ “Altro”. Cosi non abbiamo la domanda “chi è l’altro”, ma come vediamo questo “altro”.

Nella psicoanalisi il soggetto [ragionale] nasce al posto dell’Altro. « Le sujet, in initio, commence au lieu de l’Autre » Jacques Lacan. Nell’uomo la referenzialità del desiderio incontra al suo posto di riferimento - posto dell’“Altro” - un segno di possibilità di risposta al desiderio.  La frase di Lacan  il soggetto[ razionale] nasce al posto dell’ Altro significa dirà Lacan che il soggetto nasce quando al posto dell’ Altro appare il significante. (Vedi J. Lacan Le seminaire XI.)

L’esperienza della psicologia clinica, chiamamente ad un significato teologico. La testimonianza ebraico – cristiana sostiene il riferimento esistenziale all’ Altro. Il desiderio dell’Altro secondo teologia ebraica-cristiana si attua con abnegazione volontaria di sé e cosi diventa effettiva autostrascendenza dell’ io. E il riferimento incontra la corrispondenza desiderante – volontaria referenzialità dell’Altro. Con altre parole la referenzialità del desiderio incontra l’Altro per se stesso, non semplicemente come un compagno di comunicazione, perché l’alterità dell’Altro – secondo sempre la teologia ebraica – cristiana, è palpata come intimità unica.

L’Altro era la «locomotiva filologica» della filosofia degli anni 60 e 70. L’Altro è l’inconscio, l’Altro è la differenza. Secondo Levina, quando l’Altro entra nella nostra esperienza in una delle sue molte forme, dallo sconosciuto che apre la porta fino all’ alterità della morte, noi viviamo uno scarto, un’ asimmetria, una dipendenza. E secondo Deleuze e Derrida l’Altro è l’eterna differenza.

L’antidoto del pensiero filosofico era l’Altro. Cosi la filosofia dell’Altro invia alla realtà di mistero, o di un Dio, incomprensibile e inafferrabile, e possiamo dire non a idoli intellettuali concetti psicologicamente elevati a idoli evidenti fantasticherie e anche possiamo dire funziona come veicolo perché sia condivisa l’ esperienza dei dati storici della relazione tra uomo e mistero, o tra uomo e Dio.

L’idealizzazione del negativo dell’Altro secondo Clement Rosset è simile come l’idealizzazione del negativo dell’Altro di magia. Anche possiamo dire che l’Altro ci intrappola nella legge della potenza che esprime. Però se il soggetto razionale nasce al posto dell’Altro come sostiene la psicoanalisi, e la teologia, allora la razionalità è nascita a distanza dall’Altro. Cosi viviamo la distanza come desiderio vitale del suo trascendimento, la viviamo come mancanza esistenziale.

La filologia dell’Altro viene nel pensiero filosofico, teologico psicoanalitico, con la credenza che esiste la differenza nel mondo. Storicamente troviamo l’Altro quando un popolo che si sente superiore agli altri, e parliamo di un popolo eletto, in questo caso  l’Altro è l’esistenza singolare.

Cosi l’Altro come un’alterità radicale presuppone una metamorfosi senza appello. L’Altro è una potenza dell’alterità e allora il Dio ha eletto Israele come suo popolo. Cosi Israele, infatti, ha il compito di essere luce per gli altri popoli. Che cosa vediamo qui. Vediamo che l’Altro è un segreto. E questo pensiero dice che l’Altro è colui di cui si diventa il destino, non familiarizzandosi con lui nella differenza e nel dialogo, ma investendolo come segreto, come eternamente separato. E posiamo dire non contrattandolo come interlocutore, ma investendolo come sua ombra, come suo doppio, come sua immagine. Cosi l’Altro non è mai colui quale si comunica, è colui che si segue, è  colui che ti segue.

Però oggi dove era l’Altro è giunto lo Stesso. Che cosa è l’«Altro»? La prima filologia dell’«Altro» ha cominciato da Sartre, quando ha parlato di “sguardo d’altri”. L’«Altro» è la sostanza e insieme infermo dirà Sartre (“L’inferno sono gli altri”.La frase è importata nell’opera “L’essere e il nulla” del 1943). Mentre Levinas alla domanda “chi è l’«Altro»”? risponde che non possiamo saperlo, perché l’ «Altro» è sempre al di là di ogni identificazione. E come teologo ebreo Levinas dirà che l’«Altro» è allora il “fuori” indispensabile a ogni agire etico. E poi in compagnia viene Lacan e gira intorno alla questione dell’«Altro» e alla fragilità dell’io o della conoscenza dicendo che  forse l’ «Altro» è  l’ inconscio ma non è sempre cosi.

Da qui abbiamo una filologia che si chiama il rischio dell’alterità.  E’ una filologia epocale che ha cominciato con la differenza di Heidegger, quando lui ha parlato di “differenza ontologica” ma un poco prima la nozione era stata a suo modo teorizzata da Bergson. Nella filosofia abbiamo anche l’«Altro» come empatia. Da Kant fino a Husserl la filosofia occidentale compare la preziosa esperienza presenziale dell’ «Altro», la testimonianza palpitante della presenza vivente del corpo “simile” dell’ altro associato al nostro. Questa con - passività o con - attività Husserl chiama empatia, non all’interno della medesima temporalità autointuita, ma nella reciproca presentificazione. Cosi la filosofia occidentale parla di virtù dell’empatia che fondata nella percezione fisica del corpo altrui fondo l’io – vita dello stesso «Altro».  

L’«Altro» secondo la filosofia della fenomenologia è memoria – presentificazione e insieme entro – sensorio o un confluire di termini presentati e quindi consentiti in via sempre di rilevamento dall’insieme psico – biologico ed antropologico da scandagliare e per spiacere nella prospettica del continuo o “insiematico”. La mitologizzazione dell’«Altro» o di empatia secondo la fenomenologia tedesca è una tipica espressione di pensiero religioso.
 
Qui esiste un problema, l’«Altro» in un punto di contraddizione diventa lo Stesso. L’«Altro» come sguardo, l’«Altro» come specchio, l’ «Altro» come opacità (in contraddizione), tutto  finito. E questo perché la trasparenza  tra «Altro» e lo «Stesso» è  la minaccia assoluta. Non c è più un «Altro» come specchio, come superficie riflettente, cosi il segreto dell’interfaccia è che l’«Altro» vi risulta virtualmente lo «Stesso». Che cosa non può capire il pensiero occidentale, questo che troviamo nel Platone (Lettera VII, e Lettera VIII), l’«Altro» non è mai naturalmente altro, occorre renderlo altro seducendolo, rendendolo estraneo a se stesso (Alcibiade e Socrate. L’«Altro» è forse soltanto la conseguenza di questo dubbio quanto al nostro desiderio) in altre parole l’«Altro» esiste l’ho incontrato, l’«Altro» esiste l’ho seguito. Vediamo l’antitesi tra filosofia greca e filosofia occidentale illuministica. La filosofia occidentale organizza un antidoto alla cultura filosofica greca classica quando la filosofia greca classica, vedeva l’uomo come entità sociale, storica, e non come entità individualistica.

L’Altro nel teatro.

Nel Teatro vediamo l’ “Altro” con l’opera di Molière Le Misanthrope ou l'Atrabilaire amoureux, cioè il misantropo. Il misantropo (Le Misanthrope ou l'Atrabilaire amoureux), è una commedia in cinque atti del drammaturgo francese Molière. Venne rappresentata per la prima volta a Palais-Royal il 4 giugno 1666, con le musiche di Jean-Baptiste Lully.Il misantropo è un'opera che contiene dati biografici. Il misantropo nasce nella solitudine e nella crisi delle pièces di Don Giovanni e de Il Tartuffo, censurate e non esibite, e per la depressione e la malinconia per l'abbandono della moglie. Il misantropo rinuncia alla comicità dirompente della maggior parte delle altre pièces. Il particolare personaggio di Alceste (Alceste; misantropo, innamorato perdutamente di Celimene, interpretato da Molière e Celimene; donna superficiale ambita da molti cortigiani.), proclama ad alta voce, fin dall'inizio della pièce, i propri rigidi principi, e il suo ideale di un'umanità nobilitata dalla virtù. Qui l’altro esiste solo mezzo da me. Il mio io è dato come un’esistenza la cui connessione sia decisamente riconoscibile; esso è  un orizzonte aperto di possibilità che in maniera indeterminata ne stabilisce lo stile e la condotta di vita. L’altro però, con cui il Nostro pure identifica l’empatia, è memoria – presentificazione, accostamento inferenziale. L’oggettività umana risale non solo ad una pluralità di soggetti ma ad uno determinato di essi e questo soggetto costituente e’ l’ anima umana nel suo essere in  sé e per se. Qui Molière, da un vero lezione filosofico per quanto riguarda l’ Io e l’ Altro.

 Un’altra opera è di Jean – Paul Sartre, Opere Chiuse. Qui il dramma inizia con il Valletto che introduce in una stanza un uomo chiamato Garcin. La stanza non ha né finestre né specchi e si capisce presto che è un luogo dell'inferno. Garcin viene raggiunto da due donne, Inès ed Estelle. Tutti si aspettano di essere torturati, ma nessun altro entra nella stanza. Pian piano i personaggi comprendono di essere lì per torturarsi a vicenda, cosa che, nonostante ne siano consapevoli, fanno, gli uni tormentando gli altri con domande e commenti sulla loro vita precedente, sui delitti, miserie, desideri e passioni. I personaggi sono in grado di vedere ciò che accade sulla Terra, nella misura in cui ciò riguarda ancora loro, ma a mano a mano la connessione si fa più labile e le visioni scompaiono, lasciandoli da soli con loro stessi e gli altri due. Verso la fine del dramma Garcin scopre che la porta è sempre rimasta aperta ma né lui né Inès né Estelle sono ormai in grado di lasciare la stanza, imprigionati nella rete di rapporti che hanno creato. L’infermo sono gli altri secondo Sartre, è la frase dell’opera di Sartre che più di ogni è stata male interpretata. Nell’opera di Sartre “Opere Chiuse” l’altro è lo sguardo.  Con lo sguardo, l'altro aliena le mie possibilità, non sono più padrone della situazione. Lo sguardo è un intermediario che mi rimanda a me stesso che arriva all’improvviso e in modo imprevisto, dallo sguardo dell’altro non posso sottrarmi e devo sottostare, anche se ciò provoca in me la sensazione di essere ferito nel mio essere ciò mi fa provare vergogna che mi rende vulnerabile e schiavo del mio osservatore che scopre così il mio vero essere.

Viviamo la possibilità del altro, perché l’altro viene dalla situazione storica determinata in cui il singolo si trova sin dall’inizio della sua esistenza. E la dove che non c’è più nulla deve giungere l’altro. Non siamo più nel dramma ma nello psicodramma dell’alterità, come in quello della socialità, della sessualità, nello psicodramma del corpo e attraverso i metadiscorsi analitici, nel melodramma di tutto ciò. L’altro o meglio l’alterità è diventata psicodrammatica, sociodrammatica, semiodrammatica, melodrammatica.

George Courteline, con la sua opera Boubouroche ritrae con un surreale vena creativa l’eterno gioco delle relazioni. Qui l’altro è un incontro vuoto. E come diceva J. Baudrillard, non si deve dire “l’ altro esiste, l’ ho incontrato; bisogna dire “l’ altro esiste, l’ ho seguito.” L’incontro il confronto è sempre troppo vero troppo diretto, troppo indiscreto. “Boubouroche, è una farsa in due atti perché il personaggio maschile che dà il nome alla pièce si lascia manipolare a tal punto dalla sua amante da arrivare a negare perfino l’evidenza: lei per otto anni, oltre a farsi mantenere da lui, si è fatta mantenere anche da un secondo amante che nascondeva in casa ogniqualvolta lui arrivava e che, nel corso degli anni, ha imparato a memoria tutti i motivetti che lui fischiettava quando stava con lei. Questo fa dunque di Boubouroche un personaggio tragico perché è un uomo che cerca invano una felicità che non troverà mai tra le braccia della donna sbagliata.” [2] L’altro è colui di cui si diventa il destino secondo George Courteline.

Nella filosofia anche nel teatro l’“altro” non è mai naturalmente altro occorre renderlo altro seducendolo, rendendolo estraneo a se stesso, o anche distruggendolo se non c’ è  altra strada. [3]

Note:
[1] Giorgio Astone: “Inferno: l’ alterità nel teatro di Jean Paul Sartre ed August Strindberg”   «Parlando de Les mouches ci si riferisce ad una rilettura moderna delle Coefore di Eschilo, avente come soggetto principale il ritorno di Oreste, figlio di Agamennone, ad Argo, la sua città natale, al fine di vendicare l'omicidio del padre da parte della madre Clitennestra e del suo amante Egisto. Nonostante i personaggi classici ed i riferimenti alla tragedia greca, la pièce presenta numerose variazioni estremamente significative: Egisto, reggente di Argo, ha ingegnosamente concepito un rituale collettivo che mantiene vivo il “pentimento” fra i cittadini; una volta l'anno vengono predisposti sacrifici e riti sacri per il ritorno dei morti fra i vivi. Dopo aver spostato un enorme macigno che blocca l'ingresso di una caverna, presumibilmente collegata con l'inferno, un'allucinazione investe gli abitanti, che rivedono i cari defunti vicino a loro e si danno alla pratica delle “confessioni pubbliche” dei propri peccati mista a manifestazioni diverse di auto-commiserazione. In questo modo, Egisto e Clitennestra hanno esteso il loro senso di colpa e la capacità di convivere con i propri atti a tutti i loro sudditi. Al di là del rituale inventato, gli dei si compiacciono della miseria umana e lo ammettono più volte: è lo stesso Giove un personaggio del dramma…Dimostrarlo è possibile tramite la caratterizzazione dei personaggi di Danza macabra (1900), il primo di una coppia di drammi dello svedese August Strindberg destinati alla descrizione di simili processi. Il titolo strindberghiano riflette perfettamente l'ambientazione che fa da sfondo alle azioni: all'interno di una roccaforte militare situata in un'isola, tonda e costruita nella pietra, fanno la loro comparsa un altero capitano d'artiglieria, Edgar, e sua moglie Alice (donna frustrata dall'isolamento e per l'abbandono della sua carriera d'attrice). Come nell' Hedda Gabler ibseniana, il contesto militare viene scelto uniformemente all'asprezza e alla durezza dei contorti delle personalità che animano la pièce: l'isola, conosciuta dai suoi abitanti col curioso appellativo di «piccolo inferno», incarna l'impossibilità del cambiamento. L'immagine letteraria che si cela dietro la scelta del titolo è quella della danza dei morti: non è possibile indicare con precisione se Strindberg pensasse più alla sinfonia di Saint-Saëns o al tema iconografico del basso medioevonel concepire la sua opera ma diversi sono gli elementi infernali in essa presenti che ci suggeriscono un'interpretazione più performativa del titolo sull'atmosfera complessiva. L'estremo isolamento della dimora dei due coniugi, in contrasto con i lontani rumori provenienti dalla festa del dottore del paese, è rafforzato dalla presenza scenografica di un mare «cupo e immoto», intravisto dagli spettatori tramite la porta aperta e le finestre, insieme ai ferrei rituali di marcia dei soldati in guardia e all'apparizione di una vecchia mendicante, di nero vestita e dall'aspetto orribile, scambiata più volte dal malfermo ufficiale come una personificazione della morte.»

[2] Annamaria Martinolli «Farsa vandenille e pochade: tre generi teatrali a confronto». Sito: Fucinemute.

[3] Jean Baudrillard. La trasparenza del male.

Apostolos Apostolou
Docente di Filosofia