Pin It

Si è svolta a Torino, dal 2 all'8 ottobre, la venticinquesima edizione di “INCANTI” certamente una delle più importanti rassegne, anche a livello europeo, di Teatro di Figura, un teatro spesso ospite di molti festival, talora in posizione un po' coperta, che qui ha invece l'occasione di essere un protagonista capace di mostrare appieno le sue notevolissime potenzialità linguistiche e direttamente estetiche. Teatro fatto di pupazzi, di ombre e di oggetti, a partire da quelli di uso più comune, custodisce in sé, forse proprio per questo, un potenziale di trasfigurazione che spesso la drammaturgia trascura a favore della comunicazione verbale, razionalizzante e per sua natura votata all'abbandono di ciò che può apparire più oscuro. E così il nostro pensiero, quasi inconsapevole, abbandona proprio negli oggetti un senso perduto e profondo che si consolida in essi per poi a volte riemergere, come la memoria inconsapevole nel flusso di coscienza bergsoniano, così che possiamo

costruire di nuovo e cercare di riconquistare i valori essenziali della nostra esistenza.
È come se la creatività del teatro di figura e dei suoi artisti, la sua sintassi profonda, si situasse in quel luogo della mente che precede la verbalizzazione, in quanto come sostengono i filosofi del linguaggio “ciò che è reso noto negli atti di comunicazione verbale deve essere concepito come espansione e/o modificazione di una concezione del mondo condivisa e precedentemente stabilita.”
In quel luogo scopriamo allora un teatro, quello di figura, in grado di mettere talora in discussione ciò che l'atto verbale, la drammatizzazione dunque, ha consolidato, così da rimescolare i significati, far cadere pre-concetti e pregiudizi e ripristinare un più sincero contatto con perdute profondità spirituali.
Da Bergson a Nietzche pertanto, attraversando la luminosità apollinea necessaria a trasmettere il pensiero per affondare le radici nell'oscuro Dioniso, perché come lui stesso scrisse nella “Nascita della Tragedia”: “Con quale stupore deve averlo guardato il greco apollineo! Con uno stupore tanto più grande, quanto più ad esso si mescolava l'orrore di sentire che tutto ciò non gli era poi così estraneo, sì, che la sua coscienza apollinea era poi solo un velo che gli nascondeva questo mondo dionisiaco”.
E proprio lo stupore è una delle tonalità, musicali e visive, caratteristiche del teatro di figura.
Un viaggio dunque che si prende finalmente il suo giusto tempo, e proprio “Figure in viaggio” è il titolo di questa edizione che spazia tra l'antichità classica di Enea, Didone e Odisseo, la contemporaneità storica dei traghettatori di uomini e quella psicologica e sociologica della dispersione del sé, un viaggio dunque che è soprattutto un recupero della nostra memoria, un recupero della memoria che oggetti e marionette custodiscono nella loro staticità per liberarla in un movimento scenico che può diventare più vita della vita stessa, ovvero più umano dell'umano per tornare al filosofo tedesco. Sullo sfondo la morte che della vita e della memoria sembra l'inesauribile e ineludibile riferimento.
Per due giorni ho accompagnato i viaggiatori e questo è quello che ho visto.

PROGETTO ACCADEMIA PAS#STUTTGART
È una interessante iniziativa custodita all'interno del Festival che prevede “l'inserimento nella programmazione ufficiale alle scuole di teatro estere”. Quest'anno è stato il turno della Hochschule di “Stoccarda”, università di arte e teatro che prevede appunto un corso di laurea in Teatro di Figura. Quattro i  lavori presentati da suoi studenti e rappresentati in sequenza il 5 ottobre alla Sala Piccola della Casa del Teatro di Torino che ha ospitato il festival, più che lavori sorta di 'studi' che meritano però un breve resoconto:
ECHO OF AN END : lavoro sul suono anzi sul rumore che accompagna il procedere dell'esistenza, dando profondità al tempo per portare la memoria fin sulla soglia del nulla della morte, il nulla che è infine silenzio. La performer Li Kemme, che ne è ideatrice e protagonista, costruisce otto oggetti rumorosi accendendoli uno dopo l'altro fino ad attivare una sorta di concerto che improvvisamente si spegne aprendoci, appunto, al nulla.

THE MOST BEAUTIFUL FLOWERS: rappresentare l'amore è una sfida che si fa ancora più difficile quando l'amore stesso è circondato da preconcetti e pregiudizi. Ribaltare lo sguardo e la percezione trasformando e utilizzando gli oggetti in modo “inverso” (sciogliere con il phon un gelato, invece che mangiarlo, ad esempio) è la sfida delle due performer Britta Trankler e Anne-Sophie Dautz. Una sfida difficile ma a mio avviso sostanzialmente vinta.
SANS TITRE: qui il rapporto con gli oggetti prodotti direttamente in scena, si fa stringente ed in certo senso liberatorio quasi che gli oggetti ci rappresentassero meglio di noi stessi, consentendoci di uscire e rientrare nel cerchio della rappresentazione e quindi della vita. Uno spettacolo di Colline Ledoux con la supervisione di Stephanie Rinke.
CONFETTI: è un lavoro che vuole abbinare cambiamento percettivo con cambiamento emotivo trasferendo l'uno nell'altro. A tavola con il proprio specchio, con il manichino che diventa più te di te stesso, quasi a cercare nel proprio opposto o meglio nel proprio contrapposto una sincerità che la vita ti ha fatto dimenticare e perdere. Di e con Emilien Truche.

LA PELLE DU LARGE
Adattamento per cavatappi dell'Odissea di Omero ideato dalla Compagnia francese “Philippe Genty” che tanta fama ha già conquistato in patria ed in Europa. Una vera e propria drammaturgia di oggetti ove il dialogo e la stessa narrazione, che richiama il viaggio dell'eroe omerico, è subordinata alla lingua delle cose, quella lingua che viene prima del “nome”, come direbbe Benjamin, ma che quel nome alimenta in continuazione, trasmutandolo oltre la metamorfosi dell'inevitabile umanizzazione. Il cavatappi Odisseo e la sua ciurma di cioccolatini torinesi si avventura nell'isola della botte “Ciclope”, accecata appunto togliendole il tappo, in attesa di tornare a Itaca dove la bottiglietta Penelope con le sue trine di carta ovviamente attende. Tutto si trasforma e l'antico racconto classico si fa concreto procedere tra i punti di riferimento che ci accompagnano, tanto ordinari da essere spesso dimenticati. Uno spettacolo divertente che ci consente di vedere oltre l'immagine che di Omero si è consolidata nella nostra mente. Uno spettacolo di Philippe Genty e Mary Underwood, con Amador Artiga, Hernan Bonet, Yoanelle Stratman. Musica di René Aubry, disegno luci di Sylvain Buc. Alla Sala Grande della Casa del Teatro.

OMAGGIO A GIULIANO SCABIA
Con questo evento torniamo all'oggi, o meglio al passato più prossimo, per raccontare il percorso di un oggetto, o meglio di una figura, all'interno di quella che è stata forse la più inaspettata rivoluzione medica e sociale italiana, cioè la Riforma Basaglia e la conseguente chiusura dei manicomi, rivoluzione di cui Giuliano Scabia è stato uno dei protagonisti.
Non direttamente di malattia, di medici e malati dunque narra l'evento ma di “Marco Cavallo”, fantasioso animale di legno che ha accompagnato le sperimentazioni di Basaglia, contribuendo a ridare identità ai malati e scopo alla loro fantasia per anni coartata.
Dopo aver ripercorso nel foyer del teatro con Onda Teatro e la Compagnia Controluce e le loro “ombre” gli orrori del vecchio manicomio, tra elettrochoc, contenzione, asciugamani bagnati in testa e abbandono, siamo arrivati in scena alla sua presenza (in sola figura ovviamente), alla presenza di “Marco Cavallo” intendo, accompagnati dalla sua canzone riproposta prima dagli attori e poi nella registrazione della voce di una ex-ricoverata e infine cantata da tutti. In Sala Grande la discussione con Giuliano Scabia , discussione che è stata una vera e propria narrazione dai contorni drammaturgici, un viaggio 'insieme' sul palcoscenico, accompagnati dalle  letture di Silvia Elena Montagnini. Un viaggio in cui l'oscuro della nostra mente è sembrato trovare nell'azzurro “Marco Cavallo” un dialogante referente. Un progetto di Alberto Jona e Bobo Nigrone, con le ombre di Elena Campanella e Alice De Bacco e gli interventi di Claudia Appiano, Marta Barattia, Federica Brambini, Antonio Calianno, Vincenzo di Federico, Giulia Miniati, Francesca Salvini, Marzia Scala (collettivamente T.Urbano).

BABYLON
Drammaturgia di burattini con un umano (ma i termini diventano man mano, nella magia della scena, praticamente 'interscambiabili') questa della compagnia olandese “Stuffed Puppet”. Rifugiati in fuga, in fondo la vera grande metafora di questa nostra contemporanea umanità, si affollano verso una sorta di Arca di Noè che deve portarli in salvo a Babilonia (culla da sempre di una babelica incomprensione reciproca). Alcuni riescono, altri vengono respinti, così come ciascuno di noi ha il suo diverso fato o meglio il suo diverso modo di affrontarlo. In questa confusione neanche Dio, e tanto meno il diavolo, riescono, irrompendo sul palcoscenico del mondo, a mettere ordine, anzi ne vengono alla fine coinvolti e quasi 'sconvolti' dalle consuete domande 'definitive' inevase da sempre. Una drammaturgia molto intensa e coinvolgente, creata, come i pupazzi di taglia umana (e non solo fisica), da Neville Tranter, che con loro la recita. Assistente di scena Wim Sitvast, paesaggio sonoro Ferdinand Bakker.

SOLEIL COUCHANT
Arriviamo alla fine di questo nostro viaggio alla spiaggia che si bagna sul nulla, quella che ci attende al termine della nostra esperienza esistenziale. Drammaturgia senza parola in cui attore e marionetta si fondono e, più che altrove, si confondono nei ritmi lenti di un tempo che preannuncia la sua fine come un pendolo che sta man mano perdendo la sua carica. In questo ritmo i gesti consueti assumono un senso nuovo dalla vicinanza con il nulla che attende il protagonista e paiono caricarsi del peso del ricordo, come una valigia che si riempie per accompagnarci nell'ultimo viaggio., mentre abbandoniamo ciò che va perdendosi. Uno spettacolo tenero e ironicamente divertente, intenso e molto poetico della compagnia belga “Tof Théatre”. Ideazione, messa in scena e interpretazione del bravo Alain Moreau con coreografie di Seydou Boro. Regia di Laura Durnez e musiche di Max Vandervorst.

Un bel festival che conferma Torino quale capitale nazionale del teatro di figura, in un contesto che vede il teatro di marionette preservato nella sua essenza più vitale, nella sua sintassi capace di attraversare le generazioni, anche grazie all'Istituto per i Beni Marionettistici e il Teatro Popolare che da anni vi opera con Giovanni Moretti e Alfonso Cipolla. Una vocazione, quella di Torino, per un teatro 'alternativo', anche se il termine è riduttivo, capace di coinvolgere nuovi linguaggi, dal circo alla danza e appunto il teatro di figura, che anche altri Festival, come Teatro a Corte, hanno saputo coltivare.
È un terreno che il festival “Incanti” in questi 25 anni ha saputo fecondare e ha continuato a fecondare grazie alle scelte intelligenti e anche visionarie di Controluce Teatro d'Ombre, che l'evento efficacemente organizza, e del suo direttore Alberto Jona, che continua ad animarlo e rinnovarlo nel profondo.
Scelte che trovano sempre più ampia condivisione nelle Istituzioni del territorio, una condivisione che nasce da un consenso diffuso che si radica nella capacità creativa e di discussione di una intera comunità e di cui La Casa del Teatro che ci ha ospitato è evidenza, anche fisica, nella sua vitalità 'urbana' e di quartiere.