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Forse definirle coincidenze, se non nel senso freudiano che ne sottolinea più la causalità che la casualità, non è del tutto corretto, piuttosto esiti contestuali e ravvicinati di un comune sentire, di una trama di relazioni culturali che si organizza nella reciproca indipendenza ma quasi guardandosi negli occhi ed ascoltandosi gli uni con gli altri. Così la “Trilogia d'autunno” di Ravenna Festival ha esordito il 23 novembre con il “Nabucco” al Teatro Alighieri mentre non si spegne l'eco che il “Va Pensiero” di Marco Martinelli e del teatro delle Albe/Ravenna Teatro ha prodotto e rinnova ad ogni tappa della sua tournée in giro per questa nostra complicata Italia. Sovrapposizioni e suggestioni forse, ma certo è che il capolavoro verdiano nasce da una situazione personale di forte difficoltà, che quasi provocava l'abbandono dell'allora giovane Giuseppe Verdi, ed in un contesto storico e sociale di grande sofferenza, lacerato tra desideri di liberazione e rinnovamento e le catene di una oppressione

secolare. Come non vedere fin troppo evidenti similitudini con l'odierna situazione italiana, tra cadute morali e oppressioni non “dello straniero” ma di poteri  capaci di farsi stato fuori dallo stato, appunto come una potenza straniera.
Da questo doppia situazione personale e collettiva, forse, nasce la forza travolgente di un ribaltamento di prospettiva che riguarda la musica verdiana nella sua stessa costituzione, a quanto dicono gli esperti non essendo questo il mio campo, ma che si riferisce anche ai tempi della drammaturgia che appaiono rivoluzionati assorbendo nel profondo quella chiave epica necessaria a trasformare le storie singole in personaggi, e i personaggi in referenti di un rinnovamento che nel Risorgimento italiano riguardò sia singole coscienze che la società nel suo complesso, riguardò ma continua a riguardare evidentemente.
La messa in scena di Cristina Mazzavillani Muti, in prima il 23 novembre e in replica il 27 e il 30 inframezzata dagli altri due gioielli verdiani della trilogia (Rigoletto e Otello), coglie appieno questo aspetto di continuità che non è solo una facile riduzione a contemporaneità ma è la capacità interna all'opera di prestare, con una straordinaria e quasi sorprendente efficacia, le proprie suggestioni al tempo passato come ai tempi presenti.
Lo fa, dal lato registico e della drammaturgia scenica, articolando suggestioni iconografiche di grande impatto con sintassi multimediali che ne sanno esaltare l'efficacia, attivando in scena una scrittura dinamica e fortemente comunicativa.
Segno che la capacità di rinnovare l'assetto drammaturgico dell'opera verdiana ne enfatizza la capacità simbolica in un contesto attuale, mentre la stessa musica sembra trarne beneficio rivelando aspetti di modernità e raffinatezza, talora poco sottolineati, perché, come scrive la regista, “più affondi le mani nel suo teatro e più ti accorgi della grandezza o, meglio, della compiutezza della sua scrittura.”
In questo quadro naviga con facilità e naturalezza un cast giovane, a partire dal direttore Alessandro Benigni, e da tutti i cantanti, profondamente a loro agio in una messa in scena che non rinnega la tradizione simbolica dell'opera, ma la rigenera nei canoni di una modernità mai contrapposta ma sempre amalgamata, non fuori dal tempo come certe letture simboliste suggeriscono ma in comunicazione con ogni tempo per l'universalità e l'essenzialità del suo messaggio.
Queste più che coincidenze dunque, sono contestuali suggestioni di un ambiente culturale osmotico, come quello di Ravenna, di una Polis attiva e vivace, così che lo sguardo lanciato sull'Italia dal coro verdiano, mentre è stato intercettato da Marco Martinelli e dal Teatro delle Albe, ha potuto essere efficacemente rivisitato da Cristina Mazzavillani Muti e da Ravenna Festival.
Sintassi e linguaggi in parte diversi, ma animati da una comune prospettiva perché l'arte è una delle più alte forme di difesa dell'uomo.
Un esito di successo per un encomiabile sforzo organizzativo che ha coinvolto le Istituzioni ravvenati, a partire da un Comune molto dinamico nelle politiche culturali, e poi la Fondazione Ravenna Manifestazioni con il suo sovraintendente Antonio De Rosa ed infine, ovviamente, Ravenna Festival con la sua presidentessa Cristina Mazzavillani Muti.
Uno sforzo encomiabile che dovrebbe rappresentare un esempio non solo a livello locale, ma anche e soprattutto a livello nazionale per diradare un po' le nebbie che gravano sulla nostra politica culturale.
Ne è stata evidente testimonianza la presenza tra il pubblico di tantissimi stranieri, inglesi e tedeschi in particolare, frutto sia delle capacità che queste iniziative hanno di traguardare gli stretti confini nazionali, sia delle sinergie che una città accogliente e dinamica può mettere in campo.