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Due coscienze che si denudano e, facendolo, si feriscono quasi a morte mentre, oltre le maschere e le convenzioni di una società fredda e indifferente, cercano l'improvviso ed inatteso calore di una relazione diretta ma forse impossibile. È certamente tra  le più famose  sceneggiature drammaturgiche di Ingmar Bergam, e tra queste forse anche la meno disperata quasi conservasse come una luce lontana la speranza del desiderio, una drammaturgia talmente elastica e dallo sguardo tanto universale e intimamente condiviso da conservarsi ed emergere in ogni sua modalità rappresentativa, dal serial televisivo alla versione cinematografica e, qui, nella sua rappresentazione scenica. Un nucleo significativo e metaforico in grado di essere trasportato nel tempo e nello spazio e di adattarsi a sensibilità plurime e anche contraddittorie, come in questa bella riduzione di Andrei Konchalovsky che attenua le asprezze delle ascendenze strinderberghiane ben più presenti e dolorose nella

scrittura originale, figlia di temperie nordiche e notturne.
La regia, infatti, sceglie di trasportare e illuminare la vicenda della coppia nella ben più solare Roma degli anni sessanta, adottando una più tradizionale sintassi naturalista, quasi da “teatro dell'Arte”, che si palesa anche nel rendere esplicita la differenza all'interno della coppia, tra una moglie russa ed un marito italiano.
Ne consegue un cambio di atmosfere, meno aspre e dolorose e più malinconiche e talora quasi cechoviane, all'interno delle quali i dialoghi, fedeli, e lo scontro/incontro della coppia, esploso per il tradimento e l'abbandono da parte di lui, si stempera in ironia, in una sorta di accettazione dell'inevitabile che fa, in un certo senso, deporre le armi di un combattimento, l'eterna guerra dei sessi esplorata nella sua dimensione teatrale dalla grande tradizione scandinava, senza vinti e vincitori.
Infatti, se da una parte Bergman approfondiva un discorso in un certo qual modo metafisico, in cui la contrapposizione e la lotta tra l'individualità e il mondo in cui è deiettata va oltre lo stesso genere, dall'altra Konchalovsky sceglie un taglio più psicologico dando nella sua scrittura naturalista un individuazione più esistenziale dei protagonisti.
Così la scena finale appare più un'isola illuminata fiocamente dal desiderio, un rifugio ed una quiete per chi ha abbandonato la lotta, piuttosto che il luogo della resa dei conti.
Uno spettacolo comunque interessante, piuttosto tradizionale nella sua costruzione scenica e nella articolazione dialogica, ben interpretato da Julia Vysotskaya e da Federico Vanni che sanno rendere con efficacia lo slittamento semantico e significativo voluto dalla regia.
Interessante al riguardo l'uso di video con immagini televisive di repertorio di quell'Italia di allora,  usato come contrappunto, a voler ancor di più sottolineare il distacco e l'atemporalità sospensiva dell'intera narrazione scenica.
Scene e costumi sono di Marta Crisolini Malatesta, le luci di Gigi Saccomandi ed i video citati di Mariano Soria.
Ultimo spettacolo della stagione ordinaria del Teatro Nazionale di Genova, è una produzione ospite del Teatro Stabile di Napoli Teatro Nazionale, di Fondazione Campagnia dei Festival e di Napoli Teatro Festival Italia. Al teatro della Corte di Genova da 14 al 19 maggio. Alla prima buona partecipazione di pubblico e notevole apprezzamento.
Un apprezzamento che il regista, presente a Genova, ha condiviso sul palco con i suoi attori, mentre in platea lo storico attore bergmaniano Max Von Sydow lo sottolineava.