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Tra le colline degradanti che anticipano le sabbie della Rimini estiva, si rinnova un evento ormai diventato tradizione in una Europa che ha poche occasioni pari a questa per riconoscersi e ancora di meno per guardarsi un po' dentro senza infingimenti. Una tradizione tra l'altro che coniuga questo respiro internazionale, proprio degli organizzatori e dei partecipanti, con il rinnovato attaccamento e interesse al territorio che da quasi cinquant'anni la ospita e e la alimenta. È questo sguardo uno sguardo mutevole, camaleontico quasi, in quanto capace di immergersi e celarsi nei suoi luoghi per poi carsicamente ricomparire nella piena fedeltà a sé stesso. Un festival europeo legato profondamente dunque a quelle radici così singolari e particolari che lo nutrono e che, forse proprio per questo, appare talora incoerente ed inattuale quasi che gli esiti sfuggissero alla stessa volontà di preservare e valorizzare. Un compito che infatti non è sempre premiato dagli intenti estetici e dagli

esiti artistici.
L'edizione 2019 ha nella doppia e femminile guida affidata alla bielorussa, ma transitata da Helsinki, Eva Neklyaeva e alla italiana Lisa Gilardino una quasi visiva rappresentazione della sua doppia natura, territoriale, come un animale selvatico, ma insieme capace di guardare all'altrove e all'inconosciuto. Una direzione bicefala ma coerente cui discendono dimensioni artistiche diversificate ed eterodosse che quasi rinnegano definizioni precostituite per sciogliersi e ricomporsi nella relazione con quei luoghi. Un programma dunque ove la dimensione più propriamente teatrale e drammaturgica, ma anche quella della coreusi e della stessa creazione performativa viene rivisitata e quasi rinnegata nella dimensione dell'evento, latu sensu, estetico e dell'accadimento se, così si può dire, artistico.
Perché è questa del 2019 una edizione, come scrivono le due direttrici artistiche, <<fortemente radicata nel desiderio>> da cui nasce il nostro sguardo e le sue visioni.
Tra il 5 ed il 6 luglio questi gli eventi transitati:

GRACES
La danza è tecnica e perfezione o è anche ovvero soprattutto linguaggio che sa contaminarsi e quasi sporcarsi con la contingenza e la materialità della storia e delle storie personali che navigano nel tempo dell'esistere e del creare? È questa la domanda, retorica in fondo, che con ironia si pone la coreografa Silvia Gribaudi che occupa la scena con la sua concreta vitalità circuita e circumnavigata da tre provetti danzatori che in tutto dipendono da quella presenza ironica e spiazzante. Ispirata alla mitologia delle tre grazie è capace di ricondurre alla realtà della vita quella dimensione di desiderio incarnata in loro, ribaltando stereotipi consolidati e anche gerarchie estetiche, visive e generazionale,  così da aprire uno spazio alla creatività addormentata dello spettatore, costretto a ricostruire la trama di un significato che si credeva immutabile e non contaminato. Un  spettacolo intelligente, in cui la dimensione contingente, drammaturgicamente caratterizzata dall'ironica finzione del dibattito finale, ridefinisce anche spazi e tempi della tecnica coreutica quasi a riappropiarsene nel qui e ora della scena. Molto apprezzato e con numerosi spettatori che non sono potuti entrare al “Lavatoio”. Di e con Silvia Gribaudi, per la parte drammaturgica insieme a Matteo Maffesanti, accompagnata dai performers Siro Guglielmi, Matteo Marchesi e Andrea Rampazzo.

DRAGON. REST YOUR HEAD ON THE SEABED
Scomporre e ricostruire nel corpo e attraverso i corpi in movimento le forme della mente, cioè le fantasie e le visioni che attraversiamo e che ci attraversano nel tempo della vita. I visionari costruttori di questo spettacolo forse avevano questo in mente nell'organizzare i movimenti di sei, certamente brave ed esperte, nuotatrici di nuoto sincronizzato per creare una danza che, rompendo gli schemi e le regole, andasse oltre la semplice prestazione 'sportiva'. Visione distopica di una creatura che riposa nel fondo del mare della nostra mente, caos creativo, armonia disarmonica, tutto forse eccessivamente ragionato e razionale con il rischio di perdere proprio la visionarietà e la creatività. Riadattato per gli spazi della piscina olimpionica di Santarcangelo è un progetto iberico di Pablo Esbert Lilienfeld e Vladimir Strate Pezdirc, con Andrea Fernàndez Botelho, Andrea Fuertes, Conchi Iruela, Esther Mora, Carolina Pino e Irene Toledano.

DEBRIEFING SESSION
È questa una sorta di performance dissociata, che separa l'evento dal suo contesto relazionale, dalla rete cioè di relazioni che l'arte attiva e alimenta al di là dell'estetica, oltre l'arte stessa dunque. Una situazione in un certo senso anti - idealistica, in senso crociano, che sposta il tuo sguardo dalla causa all'effetto. Un incontro per dare spiegazioni, come recita il titolo, in cui un singolo attivista, più che un performer, di Public Movement ti suggerisce come l'assenza dell'opera artistica, celata o dimenticata per estranee esigenze politiche, sia un modo per normalizzare la storia. Così l'assenza dai musei di Israele di arte moderna palestinese ante 1948 rappresenta in fondo una cesura e censura che si vuole definitiva, come la razzia di opere d'arte in Europa nella seconda guerra mondiale fu funzionale ad un tentativo di imprigionare la società e la storia. Più che una performance pertanto, piuttosto una situazione in cui per lo spettatore solitario è ricostruito un evento nel suo attuale significato. Degli israeliani Alhena Katsof e Dana Yahalomi, con la supervisione per la versione italiana di Hagar Hofir. Protagonisti nelle diverse situazioni e nei diversi luoghi Itamar Gov, Joanna Jones e Hagar Hofir. Traduzione italiana di Maria Nadotti.

GUILTY LANDSCAPE.
È una installazione performativa (o performante? chissà) nella quale il percorso di accesso, letteralmente buio e complicato, ha forse la stessa importanza della installazione medesima, in quanto necessario quasi a sancire l'allontanamento e la separazione dallo stato percettivo ritenuto normale, per porci non tanto di fronte quanto dentro l'immagine. È una immagine infatti ciò attraverso il quale viviamo oggi gran parte delle relazioni che ci riguardano, ed il controllo dell'immagine è essenziale all'ordinata strutturazione delle società contemporanee. Lo schermo ci rimanda immagini di disperazione per provocare compassione, politicamente corretta ma anche politicamente inutile. Smascherare la compassione come mezzo per sterilizzare rabbia e rivolta è forse l'intento che nasce dal ribaltare i ruoli: è l'immagine con i suoi protagonisti che ci guarda, non viceversa e noi siamo in fondo comparse passive i cui gesti si ripetono come una eco nel performer che alla fine ci invita al silenzio e al riposo. “Paesaggi colpevoli” è uno studio dell'olandese Dries Verhoeven per uno spettatore solo.

SPARKS.
Spesso lo sguardo “adulto” nei confronti del bambino appare dominato dal dubbio e anche dalla paura verso ciò che ci è oscuro o forse è solo dimenticato, una sguardo deformante che, ricordiamo tutti “Il Signore delle mosche”, allontana e tenta di esorcizzare. Questa ideazione invece ribalta ogni stereotipo e apre il mondo dell'adulto allo sguardo del bambino, uno sguardo che attraversa ed annulla ogni schema di controllo e di potere dell'uno sull'altro, dell'adulto sul bambino e, come spesso temuto, del bambino sull'adulto. Due bambini dagli occhi profondi di significato ci accompagnano ad altri bambini che ci attendono in un grande spazio. Sono maghi mascherati e chiromanti, controllano magici poteri, quelli dell'immaginazione forse, e ad essi veniamo affidati, affinché leggano come un vaticinio la nostra mano. Qui i bambini controllano ed illuminano il tempo, il tempo di ciascuno di noi, svelando finalmente ciò che è conosciuto, perché questo è il vero potere di ogni mago, come un antico Tiresia, mentre come la Sfinge ci affidano ad un enigma. Il tempo scorre quasi venisse organizzato al modo dell'antica tragedia greca capace, dionisiacamente, di trasformare persone e personaggi in significati. Una creazione spiazzante e commovente di Francesca Grilli, assieme ai chiromanti Guido Rossetti e Parola Azzurra D'Agostino.

LIGHTER THAN WOMAN.
Il sincretismo di linguaggi e di sintassi, anche molto diversi tra di loro, che caratterizza l'atmosfera estetica e figurativa di questo festival, è qui esplicito e declinato in una evidenza/presenza che mescola il lavoro di catalogazione dell'antropologo con quello di immaginazione/rappresentazione dell'artista, ribaltato quest'ultimo dal processo/soggetto creativo all'oggetto creato che diventa così protagonista della creazione stessa. Qui la estone Kristina Norman assembla filmati e narrazione in scena della vita delle badanti dell'Est che vivono e lavorano a Santarcangelo, distillando la loro tensione verso la leggerezza come liberazione dal peso del lavoro, dal peso della nostalgia, dal peso della vita e infine dalla gravità stessa. Ma immaginando e sovrapponendo Samantha Cristofoletti si scopre che l'assenza di gravità produce infine una sorta di perdita della propria identità fisica e concreta, quasi privasse questa dei propri riferimenti abituali. Una felice immaginazione che unifica e mostra l'evoluzione di un territorio che si trasfigura negli apporti più lontani da sé. Di e con Kristina Norman con la drammaturgia di Laur Kaunissaare.

ULTRAS sleeping dances.
In realtà scegliere l'incertezza come cifra emotiva della contemporaneità, più che aprirsi alla speranza, sentimento che purtroppo appare spesso inattuale e incoerente in una società fluida e in superficie, in cui ogni affettività mostra di affondare, sembra al contrario declinare la confusione di un tempo con pochi riferimenti. Un tempo in cui anche la più sfrenata immaginazione non riesce a costruire una narrazione coerente del sé e dell'altro. La danza contemporanea è dunque un prendere atto che il cerchio magico si è aperto e dissolto ed ognuno, in scena e nella vita, percorre una propria strada senza una destinazione condivisa. Una danza priva di narrazione dunque che, talora anche ironica o toccante, non costruisce un orizzonte che ci comprenda e ci risolva. Ciò che la “tecnica” un tempo canalizzava e rendeva partecipato, ora non consente più e scivola in una strana e solitaria catatonia. È questa una coreografia molto figurativa, se vogliamo, ma anche distante e un po' fredda di Cristina Kristal Rizzo, da lei danzata con Marta Bellu, Jari Boldrini, Barbara Novati e Charlie Laban Trier.

Un festival per concludere che, nato dalla strada e dalla mescolanza dei generi, prosegue sulla strada di un sincretismo sempre più diffuso e spinto, perseguendo una creatività che mescola in evento atti del corpo e atti della mente, che sollecita suggestioni ed immaginazioni ma che rischia anche di perdere la coerenza estetica dell'arte come specifica attività e con questa anche la strada maestra del teatro.