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Capita di questi tempi e in questi momenti di discutere circa la difficile osmosi tra teatro di ricerca e  cosiddetto teatro istituzionale (quello degli Stabili per intenderci), della a volte un po' sorda comunicazione tra festival e stagioni, quasi dovessero ciascuna avere una propria strada e troppo pochi incroci. Certamente qualcosa va cambiando e l'innesto di questo Festival, giunto al suo decimo anno, proprio nel pieno del cartellone autunnale, è, in un certo senso, una positiva provocazione che è molto nelle corde di un gruppo, quello del Teatro Akropolis di Genova, che ci ha abituato ad una onestà critica, ad uno sguardo profondo e articolato nei riguardi di un teatro che cerca e ricerca oltre lo specifico dell'evento teatrale, dello spettacolo, che è comunque essenziale ma

in un contesto linguistico, sintattico e significativo più ampio e strutturalmente più articolato.
Uno spettacolo, un teatro, un palcoscenico come momento espressivo in cui far ricadere un processo di coscienza e conoscenza che ha man mano allargato i suoi riferimenti, dal Nietzche tragico/dionisiaco a Alessandro Fersen tra gli altri, avendo come baricentro lo studio, il rapporto, il dialogo con il corpo produttore di linguaggi, prima e in attesa della parola.
Oltre la Compagnia, Akropolis, con i due direttori artistici Clemente Tafuri e David Beronio e il contributo del direttore organizzativo Veronica Righetti, è un gruppo teatrale che crea e mobilita cultura, non solo attraverso questo Festival che ne è il culmine, ma attraverso iniziative anche editoriali che si sviluppano durante tutto l'anno e che gli hanno consentito di diventare un importante punto di riferimento locale e anche nazionale.
Per questo merita, a mio avviso, attenzione e aiuto da parte delle Istituzioni locali, per  alleviare un po' il peso che accompagna inevitabilmente una tale attività e capacità di iniziativa. Ma questo è un altro discorso.
Venendo al punto, questa decima edizione si presenta molto ricca e interessante, con molto teatro ma anche con conferenze, incontri, presentazioni quasi a costituire una macchina d'assedio per mettere in ascolto una città, una polis che vorremmo meno indifferente.
Non a caso il simbolo di quest'anno, che arricchirà anche il volume che come di consueto rivivrà il Festival, è la Mandragora radice molto teatrale e molto antropomorfa, trasfigurazione mitica e mistica del corpo umano, radicata nella terra e fiorita contro il cielo.
Un segno, un là destinato a dettare i tempi nei prossimi dieci giorni di eventi.
La prima puntata del nostro diario si apre con questi due spettacoli visti la sera di venerdì 8 novembre:

DAS SPIEL (MIT ANTONELLA)
Ritualizzare la morte è il sistema, dalle radici antichissime e profonde, che l'umanità ha inventato per ricomprendere quell'evento misterioso nel perimetro della vita, facendo della morte stessa, da oscuro abbandono senza ritorno, un elemento di significazione del nostro esistere, momento passeggero nell'eternità, nel tempo e nello spazio. Un rito che è, in essenza, anche un gioco che insegna e prepara il senso della nostra fine. Sembriamo averlo dimenticato, in questa Società economica in cui tutto sembra necessario tranne le cose essenziali, quelle che veramente appartengono alla nostra identità più profonda. Così questo piccolo ma assai profondo evento, che è più di uno spettacolo o di una performance, ci cattura anche quando, o forse soprattutto quando, l'apparente fastidio o angoscia che trapela ci rivela quello che vogliamo o siamo indotti a dimenticare (la morte è anti-produttiva). Vera protagonista è Antonella Oggiano, sacerdotessa di un giocoso rito di transito, dalla vita alla morte e ritorno, dalla vestizione e preparazione del cadavere sulla via dell'oscuro al suo ritorno vitale e affettivo, nell'abbraccio che conclude il ciclo rituale che è nell'uomo e nella natura. Enigmatica ma dallo sguardo pieno di significato, capace di risposte altrove indisponibili, gioca Antonella e sulla scena, suo tramite, significati antichi si rinnovano. Uno spettacolo difficile e inusuale, inattuale se vogliamo, ma che in fondo ci è un poco necessario. Alessandro Bedosti, che lo ha ideato e costruito, sa, in una scena paradossalmente piena di pochi ma essenziali oggetti, mantenere, evitando inutili soggettività, quella giusta distanza che apre alla presenza del rito e della sua partner. Al Teatro Akropolis, di Alessandro Bedosti, con Antonella Oggiano e Alessandro Bedosti. Con la cura di Annalisa Zoffoli e il sostegno di Casavuota, Città di Ebla.

MNEMISCHE WELLEN
Un mondo di immagini di luce, costruite in onde ricorrenti di energia e memoria come svela il titolo, sospeso tra un passato arcaico e primitivo di lampi e illuminazioni improvvise su umane ma criptiche raffigurazioni rupestri, ed un futuro distopico dal tratto figurativo e rutilante di un vecchio fumetto di Caza su Metal Hurlant (per chi lo ricorda) dei primi anni 80. In questo mondo oscuro, ancora bagnato da un fango primordiale, giace e si muove l'umanità chiusa nel proprio corpo veicolo, che aspira all'alto mentre è attratta e continuamente richiamata verso il basso. Una umanità/corpo in continua metamorfosi visuale, dentro una quasi oscurità lampeggiante in cui inevitabilmente precipitano fantasie e illusioni, suggestioni simboliche e significanti che attingono il nostro profondo e si radicano, assetate di senso, alla scena. La scena è un test, diceva Edoardo Sanguineti, in cui ci dobbiamo man mano ritrovare. Infine il corpo scompare tra i fumi di un eterno circuito e si accomoda sulla sfondo della nostra vita piena di domande. Ultimo capitolo di una ricerca visionaria, ma proprio per questo densa di concretezza e fisicità, di corporeità mutante nella luce soffusa del tempo, colpisce per la capacità di suscitare più che di indicare, ribaltamento paradossale tra scena e pubblico. Bravissima la danzatrice performer, capace di padroneggiare un corpo e di farlo parlare in una continua trasformazione. Produzione Masque teatro, ideazione regia e luci di Lorenzo Bazzocchi, con Eleonora Sedioli. Tecnica Angelo Generali.