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Verona, città shakespeariana per eccellenza, anche se, a quanto sappiamo, mai visitata dal Bardo, ma da lui resa universale con alcune delle sue più famose drammaturgie, ripropone anche quest'anno, nell'ambito della sua estate teatrale al bellissimo Teatro Romano, la rassegna - omaggio, caratterizzata dal 1948 e fino praticamente a ieri da grandi e più tradizionali allestimenti.
Ma le 'crisi' si sa, oltre ad essere fratture che interrompono traumaticamente una continuità decennale cioè ormai una tradizione, costituiscono anche occasioni per cambiare positivamente, sostituendo alle comodità dell'abituale i rischi e le opportunità dell'innovazione, come in questo caso. Infatti l'impossibilità, causa Covid19, di mettere in capo tali grandi allestimenti ha suggerito al nuovo Direttore Artistico Carlo Mangolini di tentare una via nuova e stimolante, quella delle riscritture, portando in scena l'eco contemporanea delle immortali tragedie di Shakespeare e così ritrovando

in esse, da Romeo e Giulietta, ovviamente, a Lear, da Amleto a Macbeth e Riccardo III, le ragioni dell'oggi, del teatro e di noi stessi, uomini e donne sempre uguali ma sempre differenti.
La notevole presenza di giovani sulle gradinate, con posti ridotti per il distanziamento sociale ma comunque oltre 300 e ogni sera tutti esauriti, è una testimonianza concreta della bontà di queste scelte.
Così quest'anno il Teatro Romano ha ospitato classici sempre moderni in alcune rivisitazioni che hanno impegnato, e proficuamente rimescolato, mostri sacri della scena e attori di frequentazione  anche televisiva e cinematografica, con alcune tra le più interessanti esperienze del teatro di ricerca italiano, tra Babilonia Teatri e Fanny Alexander.
Una contaminazione inusuale in un mondo, quello del teatro italiano, purtroppo spesso strutturato a compartimenti stagni, e che ha dimostrato le potenzialità di una collaborazione che andrebbe a mio avviso riproposta con continuità.
Questi che seguono sono due dei Cinque appuntamenti della rassegna dall'11 al 21 settembre.

L'AMORE SEGRETO DI OFELIA – Chiara Francini e Andrea Argentieri
Una interessante lettura dell'Amleto, traslata e condotta su tre piani distinti, che coinvolgono lo ieri di Shakespeare, l'oggi di Steven Berkoff, e, latu sensu, il domani dei Fanny Alexander che curano drammaturgia e regia. Storia di un amore segreto che in fondo esprime l'incapacità di amare (e di essere amati) dei nostri tempi, stretti tra finzione e voglia di emergere, dimenticando sé stessi e nascondendosi dietro a mascherature sempre più virtuali. In scena dunque si sovrappongono ciò che il testo elisabettiano in fondo nasconde, e la scrittura di Berkoff che interpreta quei segni e li trasforma in simboli di una relazione incompiuta, e con essi la modernità dei 'social' in cui tutto si confonde e si perde. È uno spettacolo complesso, in cui precipitano linguaggi diversi e suggestioni contrastanti, ma è anche uno spettacolo un po' sospeso ad un desiderio di novità non sempre coerente. Così i due protagonisti sono a volte troppo sé stessi, tanto da rischiare di coprire e perdere i personaggi. L'ironia che guida la scrittura scenica diventa dunque un po' troppo implicata e lo spettatore man mano stenta a trovare i giusti riferimenti. Una scrittura comunque di qualità ed una recitazione di buon livello che hanno reso lo spettacolo piacevole anche se, forse, al di sotto delle aspettative. Una produzione di Infinito Teatro, di Steven Berkoff con la drammaturgia di Chiara Lagani e la regia di Luigi de Angelis. Con Chiara Francini e Andrea Argentieri, recente premio UBU quale migliore attore under 35 per il bello spettacolo “Se questo è Levi” anch'esso di Fanny e Alexander. Il 16 settembre

MACBETH SOLO – Sergio Rubini
Una lettura scenica che diventa peripezia della e nella mente di un uomo/personaggio, che monologa con le proprie proiezioni/personaggi, con quelli cioè, e con gli eventi, che l'hanno reso tale. Uno specchio del sé, impegnato in un flusso di pensiero ego-riferito ma paradossalmente etero-diretto, psicanalitico e surrealistico con persistenti suggestioni Joyciane. Eppure quello che parla è un Io monco, senza lo specchio del suo doppio, senza la sua Lady, figura scotomizzata, assente e perduta, forse mai veramente esistita. Una scelta di sincerità, in un certo senso, di chi non vuole giustificarsi se non assumendosi tutte intere scelte e loro conseguenze. Ma è un Io che non è solo, a lui e insieme a lui la musica offre supporto e significazione, profondità ed orizzonti che paiono e appaiono oltre la stessa morte. Rubini è bravo nella scrittura e nella recitazione che completa la lettura scenica e dà corpo e voce a fantasmi mai così attuali, una recitazione coerentemente e volutamente mai declamata, sussurrata quasi a sottolineare l'interiorità e l'intimità del dire. Un uomo abituato a comandare e anche a uccidere che fa i conti con se stesso, e i conti non quadrano. Come lui è bravo Giampaolo Bandini che in scena con la chitarra esegue le belle musiche di Nicola Jappelli ispirate a John Dowland. Una produzione Parmaconcerti di e con Sergio Rubini. Il 17 settembre.

A costo di ripetersi, anche questo Festival veronese dimostra che in fondo nel teatro italiano scorre un po' di sangue della mitica Fenice. Dimostra cioè le capacità di una organizzazione che si lega alla sua comunità e sa coglierne i fermenti, ma dimostra anche, come detto, la qualità delle scelte del Direttore Artistico e la sua capacità di ritrovarsi innovando.