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Polvere. C’è tanta polvere all’inizio di questo spettacolo. La gente la sente, la respira, si strofina gli occhi, tossisce. Tre statuette gelide e scolpite nella memoria, tre personaggi “tipo” della famiglia del Sud, si svegliano da un torpore. Forse bloccati nella memoria, nel passato di una storia come tante che del Sud ha il dialetto, è vero, ma potrebbe esistere anche in altro luogo. La polvere copre ferocemente i capelli, le vesti, le parole e i gesti di questi tre personaggi. Ma non è solo la polvere del ricordo, della memoria, è polvere che soffoca, copre, nasconde, insudicia, imbratta membra, saliva, umori. La famiglia di questo spettacolo è formata da una madre, Pascalina di Gesù, una figlia e un padre, il signor Colantuono.  La loro casa è una bicocca di legno, sbilenca, sporca, come le loro vite. Non è un’unica vita familiare ma è una storia triangolare. Tutti se ne distaccano e tutti ne rimangono invischiati. Il fulcro di tutto questo è un padre-padrone, violento, ignorante, stupido. Tra vendita illegale di sigarette, droga e prostituzione, la vita scorre attraverso la paura, la rassegnazione. Che senso ha lamentarsi? Il testo finalista al “Premio Scenario 2009” arriva sulla scena del Nuovo Teatro Nuovo di Napoli, dal 17 al 20 marzo. Autori e registi due giovani talentuosi: Luigi Imperato e Silvana Pirone. Ma ancor più talentuosi gli attori che in meno di un’ora di spettacolo mostrano al pubblico una recitazione viscerale, corporea, violenta, carnale, volutamente da “basso fondo” ma mai volgare. Il corpo diventa protagonista di una violenza non solo fisica ma mentale e soprattutto sociale: viene palpato, colpito con la cinghia, strattonato, come se una persona fosse solo di carne e non potesse aspirare ad altro. La figlia lascia una lettera, la morte sembra essere l’unica soluzione ad una vita basata sull’effimero corpo. Ucciderlo, distruggerlo, significa proteggerlo dalla violenza quotidiana, dall’uso abituale del sesso. La sua morte non merita lamenti, né materni, né paterni, né sociali, né personali. Il logorìo fisico si trasforma, nella vita della ragazza, in consapevolezza di una morte psichica e mentale. Un livello superiore a quello dell’ambiente in cui vive, un livello pericoloso per lei e per chi la circonda. La comprensione violenta delle verità non va bene a nessuno. La ricerca registica di questo spettacolo va ben oltre il testo, che a tratti ricorda la tradizione della tragedia napoletana e dei “tipi” vivianeschi”, distaccandosi dall’odierna ricerca drammaturgica rivolta alla sperimentazione linguistica senza limiti.
L’escamotage della piccola casetta di legno illuminata dall’interno distingue le scene e i chiaroscuri, oltre all’utilizzo di barre di legno che si trasformano in tavolo, palco, bara. Anche le sigarette fumate incessantemente, forse unico elemento in comune tra i tre personaggi, hanno la loro parte. Le spirali di fumo dei mozziconi gettati ancora accesi per terra, giocano con le luci, mescolandosi alle nuvole di polvere. Tra movimenti sincronizzati perfettamente e  ambientazioni retrò da dopoguerra, ogni personaggio ha un colore. Nero per la madre, fredda, pallida, blocco granitico che non reagisce più. Rosso per la figlia, come il rossetto che toglie e rimette, come la sensualità sporca che vive. Marrone per il padre, lurido nel pensiero e nei gesti, disgustoso nel mangiare come un maiale nel suo recinto. E mentre la tragedia si compie, le tre figure si rintanano nella casetta sbilenca illuminata dall’interno, ricordando, a tratti, l’immagine angosciante del dipinto “American Gothic” del pittore americano Grant Wood. Il chiavistello continua a girare e a serrare la vita inconfessabile e senza inutili lamenti della famiglia Colantuono.

Visto al Nuovo Teatro Nuovo di Napoli
17 - 20 marzo 2011
Teatro di Legno
NON MERITA LAMENTI
con Fedele Canonico, Ilaria Cecere, Annamaria Palomba
scenografia Monica Costigliola
luci Paco Summonte
drammaturgia e regia Luigi Imperato, Silvana Pirone