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Non so come andasse altrove, ma nella piccola città dove ho vissuto fino a 25 anni il teatro era una tediosa faccenda di tromboni che declamavano i classici facendo fremere signore in pelliccia – e addormentare i loro mariti. Non avendo mai visto nient’altro, mi ero convinto che questo fosse il teatro – questo o, in alternativa, il ripiego di qualche combriccola

così sgangherata da non avere abbastanza soldi per fare un film. Insomma ero un analfabeta. Poi ho scoperto su “La Repubblica” gli articoli di Franco Quadri… All’improvviso, grazie alle sue recensioni che parlavano di spettacoli così diversi da quelli che capitavano nei miei paraggi, vedevo il teatro esplodere in milioni di possibilità diverse, diventare cosa viva, voce che parlava al presente, scoppio di carne, sangue e verità… Ecco, il ragazzo di provincia che fino a quel momento aveva considerato il teatro il parente povero e anacronistico del cinema, grazie agli articoli di Franco Quadri veniva a conoscenza di una realtà insospettata: altro che polvere e vecchie signore, il teatro (quel teatro che Quadri aveva scelto di raccontare) era l’avamposto più estremo del mondo, il luogo dove palpitavano le fantasie più febbrili e radicali! Il passaggio dai suoi articoli ai volumi pubblicati dalla sua casa editrice, la Ubu Libri, è stato obbligato. Il catalogo della Ubu Libri era legato a scelte forti, riconoscibili – scelte che mi aprivano mondi entusiasmanti, e mi rivelavano fra le altre cose che in Italia esisteva una voce meravigliosa: quella di Antonio Tarantino. Inchiodato alla mia città, non avevo visto ancora nessuno spettacolo di quelli sui quali, attraverso le parole di Quadri, avevo fantasticato – né avevo assistito a rappresentazioni degli autori che lui aveva pubblicato, da Koltès a Bernhard – ma tutto quel ribollire di parole scritte mi aveva colmato di malie e di idee. E così, rigonfio di suggestioni, ho scritto un testo. Un amico l’ha letto e l’ha spedito a un premio teatrale, a suo dire il più importante che ci fosse in Italia: era il Premio Riccione, e il mio testo fu premiato. Presidente di quella giuria era Franco Quadri. Ecco: in tre mosse si era compiuto il passaggio dal mio analfabetismo teatrale alla “scena”. E Franco Quadri ne era stato il Demiurgo. Se ho ripercorso brevemente questa vicenda non è per estinguere un inestinguibile debito personale con Franco Quadri, ma per testimoniare la rilevanza, la profondità e la pervasività della presenza di Quadri nel teatro italiano. Quest’uomo generoso e umorale ha avuto un’influenza dirompente sulla mia vita e su quella di molti altri autori, registi, attori, compagnie, che ha scovato con insaziabile curiosità – e poi ha promosso con entusiasmo e pervicacia. Ha indicato molte strade, e credo che fossero quasi tutte giuste. Una volta mi ha portato a teatro con lui. Era “Macbeth horror suite” di Carmelo Bene. Alla fine, mentre applaudivo con cauto entusiasmo, mi sono voltato verso Quadri, e ho visto che aveva le lacrime agli occhi. Sì: questo mostro sacro che da decenni vedeva uno spettacolo al giorno, non ci aveva ancora “fatto il callo” e continuava ad emozionarsi… D’altra parte, come potrebbero spiegarsi il peso della sua azione, la quantità di iniziative animate da lui, se non considerandole come il frutto di una passione assoluta e mai sazia?