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È lo spettacolo che ha chiuso “Epica”, festival non banale o banalmente innovativo andato in scena nelle terre dei comuni dell'Unione Reno Galliera, nella bassa attraversata dal fiume Reno che dalle colline bolognesi scivola verso Ferrara. Non banale o banalmente innovativo in quanto, come si autodefinisce, è una sorta di fiore 'teatrale' nato in quelle terre dissodate da Agorà, comunità teatrale diretta da Elena di Gioia, che, come fossero quei luoghi recuperati all'arte le antiche servitù comuni, offre appunto teatro anziché i frutti della terra. Una relazione intensa e in crescita, ritagliata tra i bastioni dei grandi teatri pubblici e le ridotte delle avanguardie della provincia emiliana. Come che sia il contesto, che non è mai neutrale, questa prima esperienza si conclude, a mio avviso non casualmente, con il nuovo lavoro, al suo esordio nazionale, della giovane compagnia bolognese “Kepler – 452”. È una  drammaturgia aperta nella sintassi e nella narrazione che prova, con audacia e forse anche con un certo spavento, a percorrere le rotte del

web per intercettarne, ma soprattutto per cercare di condividerne essendone condivisi, il mondo della violenza verbale, di post e commenti, di emoticon e sgradevoli, molto concreti questi nella loro improvvisa esplosione, insulti che, non si sa come (o forse sì), decantano poi nella realtà quotidiana, quasi sfuggissero alla loro virtualità per rivendicare una realtà che altrimenti decade come le radiazioni.
L'occasione per questa ardita esplorazione, navigazione essendo termine qui banalmente ambiguo, è l'episodio dell'arresto della famosa Karola Rackete, capitana della nave che forzò nel 2019 il blocco imposto dal Ministro (?) Salvini per sbarcare migranti salvati in mare, e travolta mentre scendeva dalla nave da contumelie, queste però accompagnate dalla violenza molto materica di corpi e atteggiamenti aggressivi.
Ecco allora l'incontro con Marco Lombardini, pizzaiolo di Lampedusa emigrato a Milano (che sia vero o meno ha importanza solo per questioni di privatezza di immagine), per cercare di scoprire in quell'uno le motivazioni che guidano i tanti in questa campagna, sempre uguale e sempre diversa, di odio.
Ma questo è l'aspetto meno importante della drammaturgia, articolata in forma di monologo dilatato nel tempo e nello spazio che ne fa un dialogo tra l'io (“quanto è difficile dire io”, si tormenta il protagonista) e ciò che psicologicamente e storicamente lo definisce tale, quello che spaventa e attrae è la possibilità che quegli altri siamo anche noi, pur non partecipando.
Così in una sorta di diagramma esistenziale sospeso tra Freud e Marx, scopriamo false coscienze e rimossi che intasano la nostra vita, esposta sempre più al pericolo che la rabbia che nasce dalla solitudine e dalla mancanza di scopi o valori, esploda in noi allo stesso modo che ne “gli altri”.
L'unica discriminante sembra infine essere l'occasione, che talora capita e talora no, in cui questa rabbia esplode. Solo la consapevolezza di ciò che siamo e di ciò che il mondo attorno è diventato, non per colpa del web che è appunto il moltiplicarsi di quell'occasione, ma a cagione di una deriva capitalistica che tutto pervade e che anche il mondo dell'arte, e dunque quello del teatro, faticano sempre di più a contrastare.
Citando David Mamet e il paese del capitalismo, a proposito degli investimenti nel teatro effettuati per avere un profitto (in America production values), visto che chi produce quegli spettacoli vorrà fare di tutto per attirare più spettatori possibile allo scopo di lucrare, allora “in tal caso è difficile che venga prodotto uno spettacolo che interroga, indaga e probabilmente disturba.”
Un lavoro dentro l'angoscia del presente privato di futuro, dunque, venato di ironia, con gli accenti anche comici del monologo, ma in fondo dominato da un pessimismo cui le generazioni, quella attuale e quelle precedenti, sembra contrapporre ben pochi strumenti.
Una drammaturgia dall'apparenza semplificante dei social, ma in realtà articolata con efficacia di stile, in un non facile lavoro di trasferimento al palcoscenico di una lingua che alla comunicazione sembra paradossalmente ostile, alimentandosi da se stessa, così da costruire un senso nuovo al percorso che il testo affronta nel rapporto con il pubblico.
Una produzione Kepler-452 con Nicola Borghesi che cura anche la regia. Drammaturgia di Riccardo Tabilio. Alla Arena Orfeonica di Bologna il 15 giugno.
Subito prima si era tenuto un incontro “Il teatro e il racconto dell'alterità”, a cura di Elena Di Gioia e Lorenzo Donati che allo spettacolo faceva riferimento. Non potendo dare conto di tutti gli interventi della giornata, mi limiterò a ricordare, su quelle suggestioni, che innanzitutto il teatro non deve dimenticare di essere soprattutto arte, anzi la forma d'arte capace di trasmettere tutti insieme molti e diversificati stimoli artistici ed estetici, quindi non deve pensare a sé stesso solo come oggetto o articolazione sociale, e poi che, inevitabilmente e per sua natura, sarà sempre praticato e frequentato da minoranze, ma che proprio per questo ne va preservato il carattere fecondo di testimonianza, senza ovviamente scivolare nel martirio, in grado di infuenzare e muovere a volte anche “l'altra” maggioranza.