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Quando uno psicanalista di grido va a teatro a raccontare del proprio immaginario con annesse proprie fragilità, non è mai cosa da poco né da perdere. E’ “Amen”, il segno dell’inizio della vita come una benedizione, ma anche l’ultima parola prima della fine. Massimo Recalcati, mediatico volto della psicanalisi dei nostri anni, si mette a nudo fino al 17 ottobre al Teatro Franco Parenti di Milano (via Pier Lombardo, 14) a partire da un libro che ha letto a tredici anni. Quel libro. Lo ha segnato il suo senso dell’esistenza, lo ha ricollegato da un lato con la sua nascita prematura e dall’altro con il senso di imminente morte che tutti ebbero a quel tempo. Ma poi è sopravvissuto, a dispetto di tutti i pronostici medici. Come un soldato nella neve che tutti davano per spacciato, come il protagonista de “Il sergente nella neve” di Rigoni Stern che torna provvidenzialmente dalla campagna di Russia del ’43. La pièce che ne scaturisce è un reading tra musica e parola, per la regia di Valter Malosti, le voci

di Marco Foschi, Federica Fracassi, Danilo Nigrelli e il progetto sonoro e live electronics Gup Alcaro. La struttura è anti-narrativa alla massima potenza, le immagini archetipiche della madre, del figlio, della morte e della lotta per la vita si avvinghiano indissolubilmente costituendo un incastro senza tempo, senza luogo, senza narrazione.
Un flusso di coscienza in cui riecheggiano le voci di soggetti diversi, del protagonista del libro, della famiglia di Recalcati, ma anche un percorso universale di ricerca della luce che ogni fibra dell’universo compie quotidianamente contro le sopraffazioni della necessità e del preordinato.
Riverberano molte suggestioni in questo verbosissimo testo, dalle anafore concettuali del teatro greco classico, volte a generare pathos catartico nel riguardante, fino al post-contemporaneo che confida nella sola parola, niente scene, sfondo, fatti narrati.
Un esperimento, certamente, un diario pubblico del tragitto privato di un’anima, un’esperienza narrativa che non ha molti emuli in anni di netta compartimentazione tra ambiti del sapere anche umanistico. Così può eccezionalmente accadere che uno studioso della psiche si rivolga a linguaggi altrui – come quello del dramma – per narrare alla propria maniera il suo oggetto consueto di analisi. Esso così fuoriesce dal trattato e si configura come un manifesto di contenuti nuovi per forme e approcci, che merita l’assimilazione di chi il teatro lo scrive e lo vive come linguaggio proprio. Interessante e innovativo.

Foto di Laila Pozzo