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Una delle qualità esteticamente più evidenti della grande drammaturgia nordamericana a cavallo della metà del secolo scorso è quella di rappresentare 'immediatamente' il sentimento di sé, immediatamente intendendo senza mediazioni che siano la tagliente razionalità di tanti drammi di area tedesca ovvero la fredda rabbia di molti scrittori britannici, di rappresentare cioè il sentimento che si sviluppa dalla consapevolezza della deiezione del sé nell'esserci del mondo. Ne nasce quel caratteristico melodramma che “espone”, del quale tanto cinema dell'epoca e anche successivo si è alimentato con forza, e che ha il suo baricentro nella disperazione di una condizione umana incapace di completarsi, spesso oppressa dalle atmosfere soffocanti del sud e perennemente spinta alla fuga, a quel viaggio verso il nulla che è parte di un immaginario collettivamente radicato, anche ad esempio nella poesia di Walt Whitman o nel grande romanzo che evolve fino alle atmosfere

dissociate e distopiche di un Cormac McCarthy. Come non ricordare in proposito Rainer Werner Fassbinder che di quel melodramma classico è stato un tardivo ammiratore ed epigono, proprio per la sua capacità di ribaltare nell'evidenza estetica ed artistica, talora nell'esibito, nell'osceno etimologicamente inteso, il sentimento che si nasconde ed alimenta le nostre vite e le nostre azioni, tra attrazione e spavento. Il melodramma dunque come la forma riconosciuta attraverso la quale si può rappresentare il sentimento.
Tennesee Williams, insieme ad Arthur Miller e a Eugene O'Neil, di quella stagione è testimone e protagonista essenziale, quello che forse più di ogni altro si caratterizza per questa capacità di utilizzare quella specifica forma e sintassi per trasfigurare il sentimento e il dolore dell'esistere individuale e collettivo.
Se in lui la letteratura sembrava l'unica possibilità, anche esistenziale, di salvezza, poiché come scriveva “le parole sono una rete per catturare la bellezza”, contemporaneamente la disillusione è la sua dominante, in quanto non devi “aspettare il giorno in cui smetterai di soffrire. Perché quando arriverà saprai di essere morto”.
“Lo zoo di vetro”, che tra l'altro tanto successo ha avuto sulle scene anche italiane e sullo schermo, di questo è espressione piena, tra abbandono e sradicamento, fuga e nostalgia, incapacità di vivere quasi fisicamente disegnata e desideri ribaltati in sogno (irrealizzabile), tra famiglia e società con relazioni interpersonali che sempre sembrano segnare, enfatizzare, la nostra solitudine anziché superarla.
Nella sua trama decantano poi strappi della stessa biografia di Tennesee Williams che ridisegna nelle figure della madre e della sorella, e nella loro relazione, il suo passato familiare e i fantasmi che nascono dalla vicenda di una sorella reale psicologicamente eccentrica e poi lobotomizzata e di una madre ritenuta l'origine della sofferenza, ma che in realtà è anch'essa molto più vittima che colpevole in una società che stigmatizza il diverso e non offre alternative ad una progressiva emarginazione.
Una società, quella americana di allora e di oggi, in grado di esercitare pertanto una tale pressione sulle fragili spalle della famiglia da farla esplodere, o meglio implodere nella solitudine. In fondo non è un mostro, è solo una madre che desidera una vita migliore per i suoi figli, la vita fatta di un matrimonio felice e di un lavoro soddisfacente di quel 'grande' sogno americano che si trasforma tanto spesso in un incubo.
La storia segue quel filo (che in un certo senso spesso si ripete facendo quasi il verso a se stesso): una madre abbandonata dal marito alcolista e fallito con due figli insoddisfatti ed estranei al mondo che li circonda, nella prigione l'una dei propri limiti e della propria zoppìa, l'altro come perseguitato dalla coazione a ripetersi paterna. Poche speranze si accendono e quando si accendono subito consumano la loro debole fiamma come candele esaurite. Nel lampo di una occasione irrealizzabile e irrealizzata, anche il piccolo e delicato zoo di vetro di Laura, che tutto contiene di quelle vite, si frantuma mentre il fratello Tom, come il padre, fugge verso il proprio altrove.
La messa in scena di Leonardo Livi è innovativa e trasla quelle atmosfere nel sogno, in un onirismo efficace che le illumina attraverso la trasfigurazione dei personaggi in maschere e clowns guidati da un Pierrot Triste che ne è il narratore in scena, non un raissoneur dunque ma quasi un sentimento sanguinetianamente travestito.
Le grosse scarpe da pagliaccio, che la madre e i due fratelli indossano, diventano così il segno evidente della difficoltà a vivere e a muoversi con qualche speranza in un mondo oppressivo ed ostile.
In fondo una storia di ombre o di fantasmi che il vecchio film di Topolino che scorre alle spalle dei silenti protagonisti, il Topolino di un tempo, ancora specchio di un mondo suo contemporaneo, reitera suggestivamente e riproduce anche nelle sue figure più icasticamente teatrali.
È come se sul palcoscenico ci venisse così mostrata la struttura di quella narrazione, le sue fondamenta e le sue deboli impalcature, oltre il realismo o il naturalismo con cui si è per lo più identificata, ma verso la sincerità che spesso sfugge.
Una regia efficace dunque, entro una scenografia ricchissima di suggestioni in cui le cose assumono profondità improvvise e inattese, come nelle inquadrature piegate e sbilenche di un film di Orson Welles.
Bravi anche i protagonisti, tutti, in cui la maschera è il medium della verità della propria, singolare e sempre più irrecuperabile, interiorità.
Produzione LAC LUGANO ARTE E CULTURA in coproduzione con TEATRO CARCANO CENTRO D’ARTE CONTEMPORANEA, TPE – TEATRO PIEMONTE EUROPA in collaborazione con CENTRO TEATRALE SANTACRISTINA. Traduzione Gerardo Guerrieri. Adattamento e regia Leonardo Lidi. Interpreti Lorenzo Bartoli, Tindaro Granata, Mariangela Granelli, Anahì Traversi. Scene e light design Nicolas Bovey. Costumi Aurora Damanti. Sound design Dario Felli.
Ospite del Teatro Nazionale di Genova, al teatro Della Corte-Ivo Chiesa dal 15 al 18 febbraio. Gli applausi sono stati tanti.

Foto Masiar Pasquali