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Ho letto con attenzione il lungo articolo fantastorico di Tiziano Scarpa sul teatro italiano del nuovo millennio (Stefano Massini e gli altri che salvano il teatro da sé stesso, "Domani" del 26 giugno). È brillante, addirittura effervescente. Ma, una volta esauritesi le bollicine, quello che resta assomiglia molto, purtroppo, all'ennesima variazione sull'eterno  lamento dell'autore teatrale incompreso e bistrattato. Quasi un genere letterario, nel nostro Paese, con una  lunga tradizione (non priva di momenti alti, da Alfieri a Pirandello, a Pasolini), che si ripropone con implacabile periodicità. La trovata narrativa dello studioso del 2122, che scrive una Storia del teatro italiano del ventunesimo secolo, serve a stento a mascherare la sostanza genuinamente reazionaria della requisitoria scarpiana, che ricalca appunto da vicino il suddetto "genere": "l'Italia viveva uno stallo che impediva al teatro di essere una forza significativa nella cultura e

nella società. […]  Il teatro era in mano a reazionari travestiti da innovatori. […] in quei tempi bui per i drammaturghi italiani […] non si accettavano più autori né drammaturghi".
Un quadro apocalittico, non c'è che dire.  Per fortuna,  un bel giorno arrivò il Salvatore,  reincarnatosi nel drammaturgo Stefano Massini, che con la superpremiata "Lehman Trilogy"   aprì gli occhi anche ai più ciechi e refrattari, mostrando loro quali miracoli di bellezza ed efficacia  il teatro potesse offrire una volta superata "una serie di resistenze ed equivoci estetici, che nei primi decenni del ventunesimo secolo avevano ridotto il teatro italiano a una nicchia minoritaria, sbriciolata in compartimenti stagni". Massini-Mosè aveva finalmente additato la terra promessa. E tutti vissero felici e contenti.
Ora, senza nulla togliere all'ottimo e comunque incolpevole Massini (a proposito, complimenti per il prestigioso riconoscimento dei Tony Awards), una ricostruzione del genere appare ampiamente infondata e decisamente caricaturale.
Scarpa, per bocca del suo immaginario storico  del futuro, individua il responsabile di tanto scempio nell'ideologia teatrale novecentesca (e nei registi che se ne sono fatti portatori), colpevole di aver soffocato la scena del nostro Paese sotto la cappa di una innovazione e uno sperimentalismo snaturanti. Ma è proprio il suo a essere un discorso inficiato da un vecchio pregiudizio tipicamente ideologico  ("Nulla salus extra textum"), che per altro la storia del teatro si è già ampiamente incaricata di confutare, per non parlare delle esperienze degli ultimi decenni, se guardate senza paraocchi o preconcetti.
Il pregiudizio testocentrico impedisce al nostro De Maistre del XXII secolo di cogliere il pluralismo e la ricchezza delle proposte teatrali contemporanee, che non possono certo essere costrette dentro lo schematico manicheismo testo sì/ testo no.
Sembra sfuggire a Scarpa che l'estetica postdrammatica (il diavolo, per lui) non rappresenta soltanto un modo (più modi, in realtà) di costruire spettacoli ma anche, e prima, un modo (più modi) di scrivere testi e di metterli in scena. Ad esempio, la composizione paratattica, per accumulo orizzontale e talvolta simultaneo,  la coralità e la struttura a monologhi alternati costituiscono  altrettanti espedienti (dispositivi) non solo registici ma anche, e prima,  di scrittura drammatica. E così la procedura epicizzante (con i personaggi che parlano in terza persona), che per altro  risale a Brecht, com'è noto, e che lo stesso Scarpa riconosce quale caratteristica dei testi di Massini,  in particolare della Trilogia.
È indubbio che il teatro italiano soffra di tanti problemi, primo fra tutti lo scarso potere degli artisti rispetto a direttori e funzionari. Ma non credo che la persecuzione dell'autore sia fra questi. Né prima di Massini, né dopo.
Tuttavia, dove lo storico immaginato da Scarpa dà il peggio di sé è sulla questione dell'attore. Questione come tutti sanno centrale nel Novecento, fino ad oggi, da Stanislavskij a Grotowski, a Barba e a Brook (scomparso in questi giorni), per indicare quattro nomi simbolici, e che al nostro De Maistre piace leggere invece nei termini oscurantisti e del tutto impropri di una  regressione e un imbarbarimento spaventosi: “Tutto ciò portò a una regressione gladiatoria del teatro più innovativo. Non si fingeva più. Quello che accadeva in scena doveva essere il più vero possibile. Come negli anfiteatri romani, in cui le ferite e le morti dei gladiatori non erano più simulate, al modo delle tragedie greche; il sangue non era più un trucco. La scena si era trasformata in arena. […] si era consumata una svolta pornografica – se ci è concessa questa analogia anacronistica – perché anche nei film pornografici gli attori maschi non possono fingere l'orgasmo, eiaculano davvero. […] Da attori e attrici, le persone in scena si trasformavano sempre più in gladiatori e performer pornoartistici”.
Non è chiaro in basi a quali fonti lo studioso del XXII secolo abbia attinto per tracciare questo quadro. Scarpa non le rivela. Ma se elenco alla rinfusa i nomi più significativi della scena italiana degli ultimi quarant'anni, compresi quelli in qualche modo più vicini ad un'area postdrammatica e performativa, non trovo nulla che possa avvalorare sia pure alla lontana la “svolta pornografica” di cui si parla.
Magazzini Criminali, Gaia Scienza, Falso Movimento, Teatro della Valdoca, Santagata-Morganti, Societas Raffaello Sanzio, Workcenter di Pontedera, Armando Punzo/Compagnia della Fortezza, Enzo Moscato, Teatro delle Albe, Moni Ovadia, Fanny & Alexander, Motus, Le Belle Bandiere, Pippo Delbono, Emma Dante, Danio Manfredini, Ascanio Celestini, Lenz/Rifrazioni, Scimone e Sframeli, Accademia degli Artefatti, Tagliarini-Deflorian, Antonio Viganò, Anagoor, Teatro Akropolis, ErosAnteros, etc. etc. Per non parlare di padri fondatori come Carmelo Bene, Leo De Berardinis, Carlo Cecchi, Carlo Quartucci, Giuliano Scabia. Un elenco già troppo lungo e tuttavia ancora incompleto.
Non vedo neppure l'ombra di gladiatori né, tantomeno, di performer pornoartistici. Vedo invece la pratica di feconde contaminazioni interdisciplinari, dove dialogano spregiudicatamente ma rigorosamente forme e mezzi espressivi diversi e lontani, dalle arti visive alla musica, dalla danza al cinema, dalla letteratura alla fotografia.  
Vedo una molteplicità di modi di ripensare al presente l'esperienza dello stare in scena, di essere attore, di recitare-interpretare-creare attoralmente. Vedo la ricerca di nuove relazioni fra autori, registi e attori, nuovi modi di scrivere con l'attore e con la scena, nuovi (ma in realtà antichissimi) modi di intrecciare finzione e verità, realtà e immaginazione, a cominciare dalla realtà-verità di cui sono portatori gli interpreti in scena.
Vedo la ricerca di nuove forme di bellezza, anche fisica, al di là di quelle canoniche e “normali”.
Vedo l'esigenza di sperimentare tipi inediti di relazione con gli spettatori. Vedo tutto  questo e molto altro, ma nulla di pornografico.
Di pornografico, in realtà c'è solo questo modo di fare “storia” del presente, con semplificazioni e deformazioni grossolane, le quali forse funzionano sulle colonne di un giornale ma sono di così basso livello da non servire nemmeno ad aprire una seria discussione.
Anche la chiusa, che vorrebbe  apparire conciliante, conferma l'impostazione manichea e dicotomica. Dopo aver elencato gli artisti presenti alla prossima Biennale Teatro, Scarpa commenta: “Una scorpacciata succulenta. Non vedo l'ora di abbuffarmi. […] Sarà una Biennale Teatro greca o romana? Recitativa o gladiatoria? Drammaturgica o postdrammatica? Sulla scena vedremo personaggi o pornoartisti? Attori o performer? Se vi interessa, vi sarò dire”.
Anche no, grazie.