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“Ci siamo distratti”. La bellezza ci ha distratto. La bellezza non può salvare il mondo, per farlo bisognare rimanere concentrati non solo sulla bellezza ma anche sul suo contrario, su quello che mira a distruggerla. L’Elfo Puccini, con il consueto ricco calendario, (prenotatevi per un lieto Capodanno con Alice) presenta, Essendo Stato, monologo di Ruggero Cappuccio. Si raccontano momenti cruciali della vita di Paolo Borsellino, momenti scanditi da un rumore di fondo e dalla capacità di percepire quel rumore, i passi avidi dei faccendieri, i passi stanchi dei poliziotti alla fine del turno, i passi dei magistrati che indagano spesso in solitudine, nel silenzio intorno. Molto evocative le immagini di Lia Pasqualino e le scene di Mimmo Paladino, avvolgono il protagonista in un continuo alternarsi di luci e ombre. Le musiche originali di Marco Betta rendono bene l’idea dei sogni, delle fatiche di chi si trova ogni giorno a combattere contro la mafia. Per farlo non bisogna mai dimenticare che la mafia non è un cancro, non è qualcosa di estraneo alla società, la mafia va guardata in faccia ogni giorno e va riconosciuta in noi e negli altri, per non distrarci. Cappuccio, recita con voce calma e pacata, mai sopra i

toni, non sono eroi gli uomini di cui si parla ma persone che hanno lavorato con tenacia, Maestri da cui imparare. Il mondo non ha bisogno di eroi, questo chiaramente emerge dal testo scenico che scorre con fluidità ed efficacia. Quattro leggii collocati in scena, ma non si tratta di un reading, anzi, potrebbero tranquillamente essere eliminati, perché l’autore recita a memoria, non c’è lettura solo nei momenti salienti in cui si vogliono citare le parole dei due magistrati. Quattro leggii che diventano ora scrivanie, ora ringhiere, finestre da cui affacciarsi per osservare la realtà intorno, studiarla, non solo indagarla, perché Falcone e Borsellino non hanno solo indagato, hanno indicato una strada per poter uscire dal tunnel. Emblematico il momento in cui Falcone presenta una lettera di dimissioni al CSM, e lo stesso Borsellino denuncia le problematiche che emergevano nel pool antimafia palermitano. È un momento fondamentale nella storia dell’antimafia quello in cui i due magistrati vengono chiamati a fornire spiegazioni sui loro dubbi, sulle mancanze di un organismo che si trova a combattere la mafia e le inefficienze dello Stato. Dal monologo emerge uno stato di continua sospensione tra vita e morte, nell’ultimo momento prima del buio, in via D’Amelio alle 16.58; una sospensione che si fraziona in differenti centesimi di secondo che diventano attimi, per riflettere sul percorso di vita di un uomo. “Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla, perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non piace per poterlo cambiare”. Ma non sempre si riesce a cambiare ciò che amiamo, anzi spesso bisogna amare accettando le contraddizioni, cercando di capire il bianco e il nero, analizzando il grigio le ombre, per offrire a chi vive in certe realtà drammatiche, una possibile alternativa, il lavoro del magistrato deve procedere parallelamente a quello della politica, dello Stato. Lo Stato siamo tutti noi, questo il segreto, per poter passare dalle parole ai fatti. I cinquantasette giorni in cui Paolo Borsellino vive dopo la morte a Giovanni Falcone, fanno del giudice sopravvissuto un uomo solo, circondato da ombre ed ecco che i leggii, potrebbero essere sostituiti da sagome, dalle ombre. Le ombre delle donne che circondano il magistrato, e con cui a tratti dialoga, la madre, la moglie, le figlie, la donna della scorta, Francesca Morvillo, la moglie di Falcone, che dorme…come la Sicilia stessa, in uno Stabat Mater contemporaneo. La Madre addolorata, sta, nel silenzio, nell’impotenza del fare che spesso soffoca la parola.

Milano, Elfo Puccini, 10 dicembre 2022