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Il demone della commedia continua a perseguitare Vitaliano Brancati, ma Brancati non è un comico, è un umorista piuttosto, e tanto raffinato quanto corrosivo. Se però è abbastanza facile comprendere le motivazioni di questa pressione del comico nella percezione dei testi brancatiani nel contesto culturale dell’Italia post fascista del dopoguerra e del secondo novecento, non è altrettanto facile comprenderla se si riflette oggi su una messinscena brancatiana realizzata oggi, in un’Italia di cultura post moderna e mediamente attrezzata a comprendere l’umorismo di Brancati. L’umorismo di un siciliano, di un meridionale, che riflette su sé stesso e sulla cultura tradizionale, nel cui seno era stato allevato, e si ribella al paternalismo maschilista e a quel che resta vivo del fascismo e della sua cultura violenta e mortifera. Che il fascismo infatti sia stato nella sua essenza più profonda e tragica qualcosa di afferente più all’antropologia della cultura mediterranea e poi del primo capitalismo occidentale che alla storia e alla politica è una consapevolezza che, a poco a poco, si è fatta strada nella mente di molti intellettuali e artisti che hanno attraversato il regime del ventennio o che su di esso hanno riflettuto a lungo. Una dimensione antropologica che ha appunto radici profonde nel maschilismo paternalista ancestrale delle culture indoeuropee e poi si è riflesso e moltiplicato nelle diverse facies

culturali e religiose che si sono succedute. Ovviamente a farne le spese sono state anzitutto le donne. Sono state? O sono ancora? È chiaro che “sono ancora” e che forse oggi più che mai questa mentalità si sta dimostrando malata e violenta, anche se il processo di emancipazione delle donne da ogni forma di oppressione maschilista, paternalista, violenta (col suo riflesso fascista) è molto avanzato e sostanzialmente irreversibile.
Si tratta di considerazioni di contesto, certo molto generiche, ma di cui non si può fare a meno se si vuol capire il senso e i limiti dell’operazione che il regista Francesco Saponaro ha provato a condurre realizzando lo spettacolo “Don Giovanni involontario” da un testo del 1945 di Vitaliano Brancati (ovviamente una riscrittura del romanzo, quasi omonimo, che è del ’41). In scena il protagonista, nel ruolo di Francesco Musumeci, don Giovanni Involontario, è Fabrizio Falco e con lui ci sono Antonio Alveario (il padre), Giovanni Arezzo (Francesco Gorgoli), Simona Malato (la madre), Annibale Pavone (il tenente), Claudio Pellegrini (Rosario Zappulla), Chiara Peritore (la serva), Irene Timpanaro (Giulietta), Daniela Vitale (Wanda). Scene, costumi e luci sono rispettivamente di Luigi Ferrigno, Dora Argento e Antonio Sposito. Lo spettacolo ha debuttato a Palermo, in prima assoluta, nella Sala Grande del Biondo, dal 9 al 18 dicembre (produzione del Teatro del Biondo e della “Casa del contemporaneo” di Salerno). Saponaro sembra ben cosciente del senso profondamente politico e morale del testo che porta in scena e sembra aver totalmente chiaro che il gallismo dei maschietti catanesi raccontato sorridendo amaramente da Brancati altro non è che un grottesco precipitato di quel maschilismo paternalista, impotente e violento che aveva avuto una tragica concretizzazione nel fascismo italiano e poi negli altri regimi di derivazione fascista che si sono presentati nel mondo.
Questa consapevolezza resta però, inesorabilmente, dentro la misura (qui) mediocre della commedia e, nel dispiegarsi dello spettacolo, non riesce a trasformarsi in riflessione partecipe e, men che meno, in lettura profonda di quanto quella mentalità sia ancora culturalmente operativa, velenosa e svalutante della realtà e dei sentimenti delle donne e quanto informi i gesti di violenza (persino omicida) di cui sono vittime ancora oggi troppe donne. A poco valgono del resto anche le diverse notazioni puntuali che indicano la consapevolezza del retroterra politico e morale del testo brancatiano: il fez da gerarca fascista sulla testa del padre o la madre che si trasforma in cattolica e indulgente (e quindi deresponsabilizzante) madonna nel finale onirico dello spettacolo. Detto questo, non c’è molto altro da dire di sostanziale di questo spettacolo che pure qualche valore formale lo presenta senza dubbio: la solidità dell’intero ensemble attorale e, in questo contesto, sicuramente il talento e l’impegno che Fabrizio Falco prova a mettere nel delineare la psicologia complessa, fragile e strutturalmente malata del personaggio protagonista, dagli esordi giovanili alla decadenza dell’uomo adulto malato e in pieno disfacimento morale.

Don Giovanni involontario
(prima nazionale) di Vitaliano Brancati. Regia Francesco Saponaro. Con Fabrizio Falco, Antonio Alveario, Giovanni Arezzo, Simona Malato, Annibale Pavone, Claudio Pellegrini, Chiara Peritore, Irene Timpanaro, Daniela Vitale. Produzione Teatro Biondo Palermo / Associazione Casa del Contemporaneo di Salerno

Foto Rosellina Garbo