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Il teatro di Lina Prosa non autorizza mai, e in nessun modo, semplificazioni interpretative: è un teatro d’arte mai banale, militante, sofisticato, capace di stare integralmente nella realtà e schierarsi politicamente senza perdere la sua collocazione nella più profonda e spesso impervia complessità della parola poetica. Non è poco, è una cifra di poetica teatrale importante, singolare ed è giusto che sia considerata in quanto tale. Ogni allestimento che parte da un suo testo si delinea sempre, nel bene e nel male, come una lotta molto interessante tra la vertigine della connotazione della parola poetica - che giustamente va difesa e persino amplificata - e la necessità che in essa, nella sua trama emotiva e nel suo respiro ritmico, possa (o sappia) trovare spazio sulla scena un’azione teatrale chiara, intellegibile e percepibile dal pubblico. È quanto vien fatto di pensare in margine a “Ulisse artico”, lo spettacolo che si è visto in prima assoluta a Palermo, dal 25 gennaio al 5 febbraio, sulla scena della Sala Strehler del Teatro Biondo. Il testo è appunto della Prosa ma questa volta la regia è esterna al lavoro creativo di questa drammaturga palermitana (e profondamente europea) ed è affidata a Carmelo

Rifici. Sembra evidente che di questo testo, sfidante e complesso, Rifici si sia non poco appassionato. In scena ci sono Giovanni Crippa (magnifico nell’inventare, incarnare e attraversare con ironia una gamma enorme di situazioni mentali e di espressioni tragicomiche) e Sara Mafodda (anche lei notevole nel proporre una misteriosa presenza femminile che, attraverso pennellate rigorose ed essenziali, si staglia dentro una mutevole fisionomia di sirena, maga, dea, donna del mare, moglie, indigena Inhuit), mentre le scene e i costumi sono di Simone Mannino e le musiche sono curate da Zeno Gabaglio. Il continuo roteare della piattaforma su cui si dà lo spettacolo è interessante non tanto per la cosa in sé, che non è poi così originale, quanto per il fatto che, insieme con le musiche e il tappeto sonoro, riesce realizzare un’espressione tangibile e in qualche modo ipnotica dell’elemento ritmico insito nella poesia della Prosa. Del resto anche i pochissimi oggetti di scena sembrano rimandare alla poeticità (allusività, connotatività, ambiguità) dell’elemento verbale: un letto/zattera/catafalco, un paio di sedie, una bellissima testa di cavallo (chiaro il riferimento al mito troiano), di ghiaccio però e che va sciogliendosi inesorabilmente nel corso dello spettacolo, ancora la grande pelliccia addosso a Ulisse (che rimanda ai grandi esploratori delle terre artiche), l’impermeabile di colore neutro militare, la tuta, il trucco che aumentano il mistero dell’identità della donna, la tastiera e l’impianto musicale elettronico che, in mano alla Mafodda, realizzano concretamente le musiche. Si tratta di una rivisitazione in chiave contemporanea del mito odissiaco: ci imbattiamo in un Ulisse disperso tra i ghiacci e le terre innevate dell’Artico. Il consueto mito classico, ben conosciuto, rassicurante, precipuamente mediterraneo, del nostos di Ulisse che vaga in cerca della sua isola e della ricostituzione della sua realtà (antropologica, sociale, politica) precedente alla guerra di Troia, è superato, è del tutto sovvertito e impiantato nei ghiacci dell’Artico. L’impressione è potente. Non solo è un mondo totalmente diverso quello che qui accoglie il vagare smarrito di Ulisse (icebergs, orsi, nevi perenni, indigeni Eschimesi) ma è un mondo immerso in un disfacimento totale, un mondo che subisce fisicamente le ferite delle guerre, delle ingiustizie, che subisce i colpi dell’inquinamento e va sciogliendosi di giorno in giorno, di ora in ora. Non c’è scampo, non c’è accoglienza per il viaggiatore, le geografie sono saltate, non ci sono mappe, non c’è strada di ritorno e non basta più rendersi conto degli errori che sono stati compiuti. Ulisse trova infine una casa, ma non è la sua casa, trova una lingua (l’inhuit), ma non è la sua lingua, e trova una donna che al suo arrivo è già morta, morta suicida per non farsi uccidere. Straordinaria, in questo contesto, è l’ironia corrosiva e straniante della canzone Les temps du fleurs di Dalida, proposta dalla stessa Lina Prosa e ripetuta ossessivamente nel corso dello spettacolo. Il pubblico però non è obbligato a conoscere il francese (o a conoscerlo quanto basta) ed è un peccato dover fare a meno dell’apporto (ironicamente leggero, positivo, nostalgico) del significato delle parole di questa canzone nell’economia complessiva dello spettacolo. Il mondo insomma è già cambiato, gli archetipi più antichi e solidi non sostengono più la nostra conoscenza, non guidano la nostra azione, Ulisse s’è definitivamente smarrito, il mondo, o almeno il mondo occidentale, ha imboccato la strada del suo disfacimento. Unica salvezza, forse, è un’alterità radicalmente utopica, non comprensibile né riducibile, non addomesticabile, un’alterità che ci supera e supera la nostra cultura che, avvelenata dall’ossessione del profitto, è diventata consapevolmente assassina e devastatrice o, se si vuole, anche tragicamente suo malgrado.

Ulisse Artico
Di Lina Prosa, regia Carmelo Rifici, con Giovanni Crippa e con Sara Mafodda. Scene, costumi e luci di Simone Mannino. Musiche di Zeno Gabaglio. Produzione Teatro Biondo Palermo, in coproduzione con LAC Lugano Arte e Cultura. Crediti fotografici: Rosellina Garbo. Teatro Biondo di Palermo, Sala Strehler, dal 25 gennaio al 5 febbraio 2023 – prima assoluta.