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Non è così consueto intercettare una drammaturgia che, esteticamente, non parla tanto o solo di sé stessa, ma attraverso di sé parla di noi, di come lo siamo diventati e soprattutto di come potremmo tornare ad essere. Il fenomeno Laplante, testo di Maurizio Patella messo in scena per il Teatro della Tosse per la regia di Emanuele Conte, riesce a farlo, senza pesantezze didattiche e senza retorica, scegliendo la sintassi leggera da cabaret futurista o post-futurista che ben si addice all'epoca dei fatti, in una sorta di inattualità di cui il sottotitolo della pièce, “Lo strano caso del capo indiano fascista”, è limpido esergo. È un lavoro, tra l'altro, figlio di un oggi inconsueto approfondimento documentario della verità degli eventi artisticamente trasfigurati in scena (lo spunto è un episodio secondario raccontato nel libro di Emilio Lussu “Marcia su Roma e dintorni”). La concreta rappresentazione di tutto questo è infatti il costume del capo Cervo Bianco posto al centro del palcoscenico e che fedelmente riproduce

l'originale ancora oggi conservato, seppur in disparte, al Museo “Cesare Lombroso” di Torino. Se l'orizzonte lontano, su cui sono appoggiate le prime fondamenta della narrazione, è la famosa tournèe italiana del Circo Vecchio West d Buffalo Bill e compagni Indiani, che aprì la provinciale nuova Italia ad orizzonti inconsueti e esotici, il suo centro è la storia di un attore che si finge capo indiano per spillare soldi, peraltro subito distribuiti, a contesse annoiate, mentre la dittatura fascista si rafforza.
In una strana ma significativa coincidenza (di tempi, di luoghi e anche di significati) i due racconti rimbalzano come una eco reciproca e la chiusura grottesca del primo, che tra l'altro coinvolse parti importanti del regime, accompagna le fasi del tragico confronto politico e la rivendicazione del nuovo(vecchio) potere.
L'intelligente sovrapposizione di un episodio all'apparenza secondario, e per questo presto e volutamente dimenticato, con il tragico momento dell'assassinio Matteotti, che segna il  procedere sanguinoso della dittatura fascista fino alla sua normalizzazione, illumina la progressiva resa della collettività nazionale (e uso il termine non a caso), che prima ancora che politica è stata innanzitutto morale.
Una resa etica ed estetica insieme, si potrebbe dire, e dunque giunta a radicarsi profondamente nella psicologia individuale e in quella collettiva, preparando così una sua continua riproduzione, che sembra affondare ed emergere ciclicamente, utile laddove e quando serva alla riproduzione del Capitale e del suo Profitto, cui prestiamo, ciclicamente anche in questo caso, maggiore o minore attenzione.
Sollecitare dunque un giudizio sull'oggi, che tanti segni, linguistici e culturali innanzitutto dentro i modi di relazionarsi a sé e agli altri, nella caduta di diffusi anticorpi contro la violenza e non solo verbale, nell'idea stessa di comando e di adesione al comando, riproduce di quella temperie storica, è un merito dello spettacolo.
Uno spettacolo 'serio', molto 'serio' direi, che parla con l'allegria di chi aveva voglia di dimenticare finalmente le atrocità del suo recente passato, scambiando la propria tranquillità con una libertà di cui stentava a riconoscere i tratti.
La regia è efficace nel sottolineare la sovrapposizione e la specularità della narrazione che i movimenti scenici accompagnano fin quasi ad una paradossale identificazione, in cui le caratteristiche dell'uno (il truffatore e impostore) sono gli strumenti dell'altro (il duce politico) per realizzare il successo del suo progetto dittatoriale.
Bravi i protagonisti nella loro recitazione accellerata e allegramente marinettiana che combina la meccanicità dei gesti, da maschera o burattino appeso a fili sconosciuti, ad una mimica capace di forzare i confini del naturalismo per approdare a toni espressionistici o addirittura surrealisti.
Espressivi anche i costumi di Daniele Sulewic, che ricordano il Bonaventura di Sergio Tofano, personaggio anch'esso nel suo apparente infantilismo, ben più eversivo di quanto possa apparire, e in questo ricco di suggerimenti anche per i tempi che, appunto, corrono. Bella in particolare l'idea degli attori proiezione dei colori della bandiera italiana.
Musiche d'epoca e originali ne accompagnano le variazioni di tono e di intensità, e la velocità dei cambi d'abito e di personalità, tra “Ridolini” e “Leopoldo Fregoli”, senza dimenticare l'enigmatico Buster Keaton, sottolinea gli improvvisi spostamenti di prospettiva.
Ne risulta nel complesso un inatteso richiamo, una paradossale anticipazione delle più recenti evoluzioni (involuzioni?) dell'Italica Nazione (sich!) ed è per questo ancora più utile a identificare nei tratti attuali giustificazioni e fondamenti passati occultati ma evidentemente purtroppo persistenti e l'oblio è sempre pericoloso. Infatti è il richiamo alla aggressiva famosa rivendicazione politica del delitto da parte di Mussolini che domina l'improvvisamente muto, basito finale.
Una riuscita fusione tra testo, finalista al Premio "Shakespeare is now 2021” e al Premio Riccione per il teatro 2021, e messa in scena, in prima nazionale alla sala Campana dei teatri di S'Agostino di Genova per la Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse, dal 23 marzo al 2 Aprile. Una pièce che  merita molte repliche.
IL FENOMENO LAPLANTE – Lo strano caso del capo indiano fascista. Testo Maurizio Patella. Regia Emanuele Conte. Con Luca Mammoli, Graziano Sirressi e Enrico Pittaluga. Scena Emanuele Conte e Luigi Ferrando. Costumi Daniéle Sulewic. Luci Matteo Selis. Musiche FiloQ. Coreografie Giovanni Di Cicco. Assistente alla regia Alessio Aronne. Collaborazione artistica Luigi Ferrando. Attrezzeria ed elementi scenici Renza Tarantino. Assistente ai costumi Daniela De Blasio. Sarta Rocìo Orihuela Perea, Stagista sartoria Filippo Izzo. Assistente alle coreografie Emanuela Bonora. Direttore tecnico Roberto D’Aversa. Illustrazione Maria Saccomanno – Scuola internazionale di Comics.

Foto Donato Aquaro