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Rovigo 15 – 18 giugno 2023, a cura del Teatro del Lemming va in scena la diciannovesima 'generazione' del Festival “Opera Prima”, pardon diciannovesima edizione, ma il bisticcio è ben giustificato se si pensa all'esergo ripetuto del festival, “generazioni” appunto, a indicare che ogni edizione è da una parte una ri-generazione di una idea forte di teatro che Lemming e Massimo Munaro da sempre custodiscono, e dall'altra è un evento capace come pochi di intercettare le Generazioni che si susseguono sul palcoscenico della vita.Un modo di essere che non è solo una idea estetica, pur limpida e fortemente strutturata, o tanto meno una ideologia teatrale che aspetta i suoi mentori, ma che unisce in sé appunto due accesi interessi, le novità del nuovo teatro e l'attesa della comunità, attesa questa ovviamente intesa come passivo attendere della comunità rispetto al (proprio) teatro e come attivo aspettarsi un ritorno positivo da un proporsi sincero ad essa del (proprio) teatro. C'è un segno metaforico

cui rimanda questa diciannovesima edizione ed è la diciannovesima carta dei Tarocchi, l'arcano del sole, una coincidenza forse ma, in quanto tale, foriera più che di suggestoni di stimoli, di questioni da affrontare e da risolvere, con l'urgenza del tempo di post-pandemia, di issue direbbero in proposito gli inglesi.
La forza del Sole e la sua natura profonda infatti sono prima l'illuminare e poi il riscaldare, forza ancor più necessaria in una società moderna che, come scrivono gli organizzatori, ama soprattutto le zone d'ombra, o anche i retro pensieri che spesso degenerano in complottismo sterile favorendo una omologazione nel segno imperante del tanto peggio.
Illuminare dunque per far prendere consapevolezza e poi riscaldare con il sentimento nuovo di essere tutti assieme umanità.
Trova dunque in questo arcano della vita il suo senso rinnovato il Festival “Opera Prima”, che ancora una volta lancia una cima a quei giovani che con difficoltà sono costretti a muoversi in ombra, offrendo loro la (una) possibilità di mostrare la loro arte e sé stessi e mettendoli a confronto con esperienze più mature e affermate.
Insieme a questa non comune visione da sempre coltivata, l'altra che unisce i fili della sua storia con quelli della città che li ospita, quella Rovigo che in quesi giorni, ma non solo, grazie al suo (è giusto dire così) Festival raggiunge una dimensione teatrale nazionale e internazionale che non è sempre facile trovare.
Un mescolarsi profondo con spettacoli gratuitamente offerti in luoghi topici e centrali della città, tra passanti incuriositi che si fanno spettatori interessati di eventi di grande valore artistico, a volte urticanti e sfidanti, in ogni lingua del teatro.
Al centro anche fisico di questa riflessione, dentro il concreto della vita e del teatro, una interessante tavola rotanda pubblica ai giardini DueTorri, cui io stessa ho partecipato, organizzata in collaborazione con la rivista “La Falena” e articolata sulla domanda che sempre un po' travaglia il teatro e il suo mondo: “Quale teatro per questo presente?”.
Una domanda che si riflette da ogni passato e può riproporsi in ogni futuro e che, sostanzialmente, surroga un quesito più profondo, quello cioè se sia utile se non necessario, oggi come ieri e come domani, il teatro, e la cui risposta in fondo è un 'sì' che può essere da tutti condiviso al di là delle specifiche esperienze.
Questo perchè il teatro è direttamente collegato alla nostra umanità, in cui affonda le sue radici ben oltre la psicologia fino a diventare una esigenza in fondo quasi inconsapevole di piena consapevolezza di sé. Tanti gli spettacoli, ecco un breve diario della mia esperienza.

IL TEMPO CONSUMA 1978/2023 / Michele Sambin.
Potrebbe sembrare una ovvietà, in fondo è la stessa natura del nostro esserci esistenziale che ce lo insegna, ma proprio per questo non lo è. Infatti questo spettacolo, nato nel 1978 in un mondo analogico e trasfiguratosi senza modificarsi o deformarsi nel 2022 per poter proseguire nel nostro mondo digitale, questo tempo che consuma, prima le 'immagini' e poi i 'suoni' ce lo fa proprio vedere e questa è teatralmente parlando una sorpresa. Più che una drammaturgia composta, questo di Michele Sambin, è uno spettacolo musicale ed insieme una videoperformance in cui l'attore, e polistrumentista, in carne ed ossa improvvisamente si sottrae per lasciare di sè immagine e suono che vanno man mano decomponendosi per riproporre altro da sé fino a scomparire. Ma alla fine egli (ella) ritorna in forma di voce e canto, recuperando in Federica Manzo il filo di una ricerca mai abbandonata ma come solo sospesa. Prodotto dalla temperie sperimentale degli anni 70 che ha proseguito una ricerca da altri abbandonata, è uno spettacolo che ha un fascino non comune.
Voce, violoncello, videoperformance Michele Sambin, voce Ludovica Manzo, regia audio/video Alessandro Fiordelmondo.
Ai Giardini Due Torri, giovedì 15 giugno.

IL TERZO CANTO DELL'INFERNO Studio d'ambiente / Teatro del Lemming.
È un vero e proprio spettacolo, non solo l'esito di un laboratorio, in cui Massimo Munaro dirige sulla scena gli studenti di un Liceo di Rovigo, che però non sono studenti bensì in primo luogo attori, nella percezione che lo spettacolo consente di loro negli spazi pieni di gente della centrale Piazza Garibaldi. La “Commedia” dantesca in effetti, oltre che un poema di parole, è anche se non soprattutto una grande drammaturgia di immagini e quindi di corpi. Così la concepisce il Lemming e così la interpretano i giovani attori che non soltanto dicono (e 'dire' qui lo uso nell'accezione più alta e completa del termine) le parole ma soprattutto le pronunciano con i loro corpi e così conducono il discorso lirico muovendosi coerenti nello spazio che li accoglie. E lo fanno con padronanza ed efficacia, tant'è che il manipolo di spettatori presenti all'inizio dello spettacolo man mano è cresciuto e si è fatto consistente, fino ad attirare l'attenzione di tutta quella comunità che nella sua piazza ama raccogliersi, raccogliendo appunto un nuovo seme che forse si farà frutto.
Con gli studenti del Liceo Scientifico Paleocapa di Rovigo Rosanna Amarena, Marina Aspidistria, Filippo Casarotto, Maddalena Dal Maso, Anna Marzola, Luca Pellielo, Francesca Zangirolami, a cura di Diana Ferrantini, regia Massimo Munaro.
In Piazza Garibaldi , venerdì 16 giugno.

BRAVE / Paola Bianchi – Valentina Bravetti.
È come fare un passo indietro, un cinematografico flash back nel profondo. Si parte da due corpi avviluppati, quasi da un gruppo marmoreo che ricorda il movimento congelato e pietrificato nella sua paradossale dinamicità delle sculture di Auguste Rodin e soprattutto, per la sua dolente tragicità, di Camille Claudel. Poi il movimento accenna a scongelarsi e i movimenti riprendono e sembrano man mano ricostruire un prima della vita che è anche il suo orizzonte futuro. I due corpi, come guidati da suoni e musica che strutturano un po' alla volta lo spazio che li circonda, si staccano e allontanano e la forza di gravità, che li tiene quasi incollati a quella terra incognita che è il palcoscenico, nulla sembra potere rispetto allo slancio di una vitalità che sembrava attenuata ma che l'arte può riaccendere. Sono due corpi diversi, uno dei quali gravato da una malattia che però qui sembra non esserci, dunque ci sono 'solo' due danzatrici in scena, non c'è handicap ma solo il senso del limite ineludibile, la coscienza della nostra finitezza, che ci deve accompagnare e in base al quale, e solo accettandolo come tale, possiamo costruire una esistenza profondamente sincera e, perché no, anche felice. È quest'ultimo corpo, quello di Valentina Bravetti, a diventare infatti sempre più protagonista, attirando come in un gorgo di antica emozione e di sapienza il nostro sguardo, mentre l'altro esce quasi con estetico pudore dalla scena circondata per tre lati dal pubblico. Una protagonista in cui si fanno evidenti, nei movimenti coreutici, le suggestioni del “Funambolo” di Jean Genet che deve stare sulla corda sfidando la morte, movimenti in cui risaltano le linee de “l'Impleurant” della Claudel, che però non implorava, come si crede, l'amante perduto bensì la vita che comunque la riempiva. Uno spettacolo sostenuto da una coerente coreografia, tecnicamente ineccepibile, capace di trasformare un po' alla volta la tecnica in sentimento e il sentimento in movimento empatico. Uno spettacolo profondo e pieno di fascino che nasce dopo molti anni di dialogo a distanza tra Paola Bianchi e una Valentina Bravetti ormai da tempo purtroppo lontana dal palcoscenico. E il titolo secondo me premia sia la bravura che il coraggio, nel termine letto all'inglese.
Concept e coreografia Paola Bianchi, di e con  Valentina Bravetti, Paola Bianchi, suono Davide Fabbri, Luca Giovagnoli, Giacomo Calli-disegno luci Paolo Pollo, Rodighiero-direzione tecnica Luca Giovagnoli, collaborazione artistica Roberta Nicolai, produzione Città di Ebla / Festival Ipercorpo-coproduzione PinDoc.
Al Teatro Studio, venerdì 16 giugno.

SERPENTINE / Lodovica Manzo e Loredana Antonelli.
Apparterranno pure a due mondi estetici e percettivi diversi, il suono-voce e l'immagine-sguardo eppure spesso, e questo interessante spettacolo ne è l'evidenza, l'immagine può agevolmente e intensamente veicolare senso e significato, non solo simbolico ma anche logico, e il suono può a sua volta creare e proiettare immagini chiarissime alla mente, anche a colori certamente, in una sorta di psicologica elaborazione che trasfigura il suo essere messaggio e messaggero insieme. In sostanza quella che Edoado Sanguineti chiamava “immagine di suono”. È questo uno spettacolo sperimentale in un certo senso, che mescola suono (la voce umana che esplode nella sua più profonda espressività ricordando la ricerca sulle sue potenzialità di Demetrio Stratos o anche Chaty Berberian) e immagine proiettata, e dunque proiettiva, non perchè l'uno sveli il significato dell'altra o viceversa, ma per creare insieme un significato nuovo. Bravissime entrambe le protagoniste di un qualcosa di diverso ma che è sempre teatro.
Voce, elettronica, synth, live sampler Ludovica Manzo, live visual Loredana Antonelli.
Al Teatro Sociale di Rovigo, venerdì 16 giugno.

Un Festival dove lo studio e la ricerca si abbinano con naturalezza all'ospitalità.