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Apocalisse, etimologicamente (ἀποκάλυψις) togliere il velo e dunque “rendere noto”, è, mescolandosi fisica e metafisica, una sorta di canale o varco quantistico, al cui inizio sta l'Umanità che vive la catastrofe (questo il significato storico che ha

assunto la parola) dell'esserci, dell'esistere essendo separata in quanto scacciata e abbandonata dalla sua scaturigine, il divino che l'ha concepita, e al cui sbocco sta appunto la rivelazione e la rinnovata unione con quella sua scaturigine senza tempo. Un passaggio dunque, sempre in bilico tra realtà e immaginazione, tra etica ed estetica e sempre in pericolo di implodere precipitando su sé stesso, che può essere visto (a volte appena intravisto) solo con gli occhi dello spirito, con gli occhi di quella irriducibilità che ci è propria e che è forse una eco di quell'antico legame, di quella terra da cui siamo stati cacciati e a cui, nell'immaginazione dell'evangelista testimone (Storia), che si fa così mistico visionario (Eternità), siamo 'destinati' a ritornare ma solo ribaltando noi stessi. La catastrofe è dunque questo ribaltarsi dell'Umanità e dell'Essere Umano, un ribaltarsi che lo terrorizza con il suo fragore e schianto, ma che apre alla luce della metamorfosi rivelatrice, alla “Donna Vestita di sole” e all'Agnello dai sette occhi, dionisaco simbolo di trasfigurazione che si fa cristiano in “Cristo”. L'Apocalisse di Giovanni, incistata da molte altre suggestioni soprattutto figurative, si fonde dunque nella visione, che appare sin da subito di una coerenza e sovrapponibilità quasi disarmante, di Lenz che prosegue con questo suo terzo spettacolo, anzi questa sua terza Imagoturgia, dopo “La Crezione” e “Numeri”, la sua riflessione sul sacro, sulla sua scrittura e sul suo essere soprattutto immagine rivelatrice.
Una riflessione che non confonde i suoi strumenti di indagine, affidandosi con inusuale e inusitata purezza alla lente mistica della parola creatrice che è strumento prima della gnosi, e poi dell'immaginazione e dell'immagine, che non è tanto prodotta quanto dall'immaginazione catturata, esistendo forse indipendentemente da essa ma prendendo forma e vita solo attraverso di essa.
Una gnosi che, se vogliamo rimanda tra gli altri a Dostoevskij sulla cui concezione del mondo Nikolaj Berdjaev così scrisse: “la concezione di Dostoevskij è prima di tutto dinamica...da un tale punto di vista dinamico in Dostoevskij non vi è contraddizione alcuna. Egli realizza il principio della coincidentia oppositorum”.
Universi paralleli, si direbbe, in improvvisa comunicazione, sacra continuità ed umana imprevedibilità che paradossalmente e felicemente si connettono; Francesco Pititto e Maria Federica Maestri ricostruiscono con consapevolezza e profondità il legame spesso dimenticato tra storia ed eternità, tra umano e divino (oltre ogni fede), tra corpo e spirito a partire dallo stesso ambiente che accoglie questa imagoturghia.
È un edificio di archeologia industriale più volte dismesso e più volte ripristinato, in cui si legge la mano innovativa sui generis di Pierluigi Nervi, un luogo dunque di operosa industriosità trasfigurato, da etica ad estetica, nella luce dell'arte scenica di Lenz.
Ci auguriamo al riguardo che le Istituzioni locali e nazionali sappiamo preservare un tale ambiente da stravolgenti mutamenti o ristrutturazioni che lo privino della sua bellezza singolare.
Una Imagoturgia che è un viaggio “da-a” in sostanza, come l'Apocalisse di Giovanni, e come nella visione dell'Evangelista con l'Aquila, al contrario della commedia dantesca, solo l'anima si muove e il corpo resta immobile mentre è il tempo che si muove attorno a lui fino a deformarsi.
La prima grande sala, da cui ci si incammina, è la sala che anticipa la conoscenza e in cui alla conoscenza si accede, è la sala dell'Aquila che ci mostra i suoi cinque diversi testimoni, mentre sulla grande cupola le immagini del Correggio si sovrappongono ad agnelli simbolo e insieme annuncio. Il luogo crea una suggestione particolare, quasi preparatoria come nell'introito domenicale, soprattutto grazie ad una eco assai singolare che il drammaturgo sa sfruttare figurativamente imponendo frasi brevi e staccate che si prestano alla reiterazione che ne amplifica il senso, quasi un logos che si autoalimenta della sua propria conoscenza. Ora si presentano a noi i quattro cavallieri nei loro colori.
La seconda può essere definita la sala della purificazione, tra imponenti colonne con capitello sospese e grandi vesciche gonfie d'acqua che liberano docce sotto cui gli attori e i performer transitano lentamente. Qui l'attrice 'sensibile', di grande qualità recitativa e trasportata quasi inavveduta dal primo ambiente ove sembrava metamorfizzare l'Aquila giovannea, si materializza tra noi spettatori del rito provocando, con movimenti e mimica, una imprevista emozione mentre prosegue il canto della giovane soprano e mentre continuano a scorrere le immagini dei paesaggi montani e pastorali di Anna Kauber e quelle tragiche della grande discarica di Korogocho realizzate da Julius Muchai,
La terza e ultima sala, la più piccola, è la sala del sacrificio (mangiare il corpo del(di) Dio) in cui l'Agnello si fa da espiazione dell'uomo a sua piena salvezza nell'identificazione del Cristo, così da aprirci finalmente la vista sulla Gerusalemme Celeste dentro la quale, terminando il nostro viaggio, supereremo ogni lontananza e ogni 'differenza'. Inevitabile, almeno per me, non percepire nel passaggio la traccia, in questo sacrificio, di una artaudiana crudeltà, la crudeltà che smaschera e dunque libera.
Uno spettacolo site specific, che purtroppo non potremmo più vedere così altrove, di grande empatia e profondità emotiva da cui è diffcile allontanarsi, ma anche una drammaturgia profonda che sa indagare i temi più essenziali dell'esistere, tra il vivere e il morire.
I cinque attori e performer, ciascuno per la sua 'abilità', ne costruiscono il percorso nella concretezza della scena, senza mai dimenticarne i riflessi spirituali, così che l'installazione scenografica e tecnica, insieme alla musica, quasi si compone attorno a loro e attorno alla loro presenza cui i bei costumi conferiscono una potenza simbolica notevole.
Se dunque la capacità di mescolare, con i linguaggi, le emozioni è segno distintivo delle creazioni di Lenz, in questo caso, tra scenografie, costumi, musica, video e installazioni, la dimensione per così dire monumentale (i singoli capitelli sono di pietra e pesano ciascuno 150 Kg) della messa in scena in un certo senso ne valorizza ulteriormente l'esito estetico.
E stavolta realizzare drammaturgicamente un testo così chiuso, criptico e quasi esoterico come l'Apocalisse di Giovanni per farne una messa in scena che ne illumini per quanto possibile i più nascosti recessi sapienziali, non era cosa facile per Pititto e Maestri.
Come di consueto immagine e parola si miscelano, liberandosi a vicenda, l'una nell'altra e l'una per l'altra, un dare forma spirituale alla materia, in fondo, come nell'estetica di Lenz.
Nell'Area WOPA di Parma dal 22 al 30 giugno. Visto alla prima non senza emozione condivisa e con la speranza che ne venga realizzato quanto meno un video integrale che possa conservarlo alla memoria dei più.
APOCALISSE. Progetto Sacre Scritture - Reidratazioni del Presente Urbano. Creazione di Maria Federica Maestri e Francesco Pititto. Drammaturgia, imagoturgia Francesco Pititto. Composizione, installazione, involucri Maria Federica Maestri. Musica Andrea Azzali. Interpreti Fabrizio Croci, C.L. Grugher, Valentina Barbarini, Sandra Soncini, Tiziana Cappella. Soprano Victoria Vasquez Jurado. Estrazioni documentarie Anna Kauber. Riprese video Julius Muchai. Produzione Lenz Fondazione