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Essendo, per sua natura e per mediata shakespeariana intuizione, comunque “il palcoscenico del mondo”, il luogo del Teatro lo è soprattutto perché è un limes, anzi una osmotica membrana in cui si incontrano, nel creativo paradosso del qui e ora

senza dimensione, realtà e arte, verità ed immaginazione che così, e reciprocamente, si legittimano. Immaginare dunque per poter 'vedere', nel luogo etimologicamente dello sguardo (theaomai), e quale miglior esempio, di un siffatto processo estetico, del poema dell'Ariosto, che mescola con coerenza le immagini dell'immaginazione e le parole della vita che si fa storia ed esistenziale consapevolezza per chi le crea, per chi le 'dice' e per chi, infine, le ascolta. Emanuele Conte, tornato per l'occasione alla Regia della compagnia del Teatro della Tosse, si confronta con tutto ciò e con questa sua bella drammaturgia decompone con visione profonda la struttura del poema cinquecentesco, così compatta da essere agevolmente smontabile come già altri felicemente fecero, per immergerla e quindi scioglierla nella natura del parco di Villa Duchessa di Galliera a Genova Voltri. Da tale estetico miscelarsi emergono, con un senso nuovo, alcuni oggetti/eventi, cioè parte di quelle parole e di quelle immagini che, per così dire, non sono solubili ma 'permangono' nel fluire stesso della narrazione, le cui onde quasi si infrangono su di esse, come significati e significanti oltre la contingenza.
Un “dramma a stazioni” che, come la bacchetta del cantastorie su un bidimensionale telone immaginario, si fa strada nel racconto, in cui la contemporaneità delle vicende trasfigura nel percorso di una storia in divenire, che come tutte le storie cerca e talvolta trova la sua fine (lieta o meno lieta che sia poco le importa).
Partiti dal bel giardino all'italiana che precede la Villa, il pubblico si inerpica con una camminata processionale fino al prologo 'Poeta' che, ovviamente incontra per primo, così che possa fornirci i primi rudimenti per capire dove andiamo a parare. E poi l'Ippogrifo, segno e metafora stessa dell'immaginazione creativa che, sola, può salvare il senno perduto dell'umanità, quindi Angelica (o Angela), sofferta metamorfosi di un amore descritto per occasione ed omaggio, Angelica in cui il femminile nonostante tutto si staglia a possibile riscatto.
Dopo Angelica, il suo specchio, mimetico e contrario, quella Bradamante, donna bellissima e guerriera che pur volendolo rifiuta l'amore che imprigiona, quindi Orlando 'furioso' comunque, con o senza senno, che cerca il dominio senza condivisione alcuna, come il suo riflesso Rodomonte, mostro chiuso nella gabbia del suo furore.
Infine il 'puparo', rievocando i duelli di Orlando, Bradamante, Rodomonte e tutti gli altri, ci congeda  (e si congeda) ricordandoci che a Teatro tutto è inventato e per questo tutto è più vero.
Ma come in ogni fantasia che si rispetti, dentro leggiamo inevitabilmente le ferite della umanità di ieri e di oggi, per la quale la 'Guerra' pare essere l'unica dimensione riconosciuta ovvero condivisa e a cui, paradossalmente, proprio quella stessa fantasia sembra, unica anch'essa, essere destinata a porre un argine.
Mistero o gioco, processione o coreografia tra natura e cultura, è uno spettacolo ben ideato da Emanuele Conte nella drammaturgia e registicamente ben costruito, in cui gli attori sembrano addirittura trarre una più precisa ispirazione, al loro recitare e ben rappresentare, proprio dall'ambiente inusuale (non per il Teatro della Tosse però che di tali immersioni si è fatto cultore) in cui gli eventi scenici vengono fatti accadere.
In particolare, proprio a partire dal rapporto 'spontaneo' con un ambiente naturale talora impervio, la scelta registica di non microfonare gli attori poteva risultare un azzardo che però si è trasformato in una soluzione coerente ed efficace.
Infatti la voce naturalmente recitante, anche all'interno di uno spazio aperto ricco di riflessi e anche interferenze sonore, ha saputo, grazie alla bravura dei protagonisti e alla qualità della regia, meglio amalgamarsi alla parola detta ed essere quasi figurativamente espressiva del senso profondo della narrazione.
Luci e costumi non contrastano anzi molto umanamente sottolineano quella naturale e itinerante ambientazione che si apre su paesaggi, tra mare e collina, di grande bellezza, un po' come le liriche parole dell'Ariosto sono in grado di leggere oltre la stessa finzione del racconto, una ambientazione che, ancora, sembra quasi produrre da sé il suo efficace ambiente musicale.
Una bella prova di teatro, di regia e di recitazione, cui il pubblico è apparso appassionarsi, così da magari continuare, poi, a cantare dentro di sè “Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese ...” ecc. ecc.

Al Parco storico Villa Duchessa di Galliera in Genova Voltri, dal 5 al 29 luglio.
ORLANDO D’AMORE FURIOSO Le belle parole spesso nascondono cattivi tranelli. Testo e regia Emanuele Conte. Liberamente ispirato a ORLANDO FURIOSO di Ludovico Ariosto. Costumi Daniéle Sulewic. Luci Matteo Selis e Andrea Torrazza. Assistente alla regia Alessio Aronne. Con Raffaele Barca (Orlando), Alessandro Bergallo (Ippogrifo), Pietro Fabbri (Amorino), Antonella Loliva (Bradamante), Matteo Palazzo (Rodomonte), Alma Poli (Angelica), Marco Rivolta (Prologo)
Graziano Sirressi (Puparo). Direttore di scena Roberto D’Aversa. Attrezzista Renza Tarantino. Fonico Massimo Calcagno. Macchinisti Fabrizio Camba, Kyriacos Christou, Amerigo Musi. Elettricisti Davide Bellavia. Assistente ai costumi Daniela De Blasio. Sartoria Rocio Orihuela Produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse. Lo spettacolo è stato realizzato con il sostegno del Comune di Genova e di Genova Città dei Festival.

Foto Donato Acquaro