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Proprio quell’«amico dell’arte», il pilastro su cui riposano i nostri trattenimenti artistici, teatri,

musei, le società di concerti, è da mettere al bando; il favore statale che viene accordato
ai suoi desideri, è da tramutare in sfavore; il giudizio pubblico, che ripone un valore
tutto particolare proprio nell’inculcare quell’amore per l’arte,
deve essere tolto di mezzo da un giudizio migliore.

F. Nietzsche, Scritti su Wagner

La programmazione di un festival porta sempre con sé numerose questioni, legate alla selezione degli ospiti e alla necessità di far trasparire un disegno che non sia affidato ad una omogeneità di stili e di poetiche, ma a qualcosa di più sottile, qualcosa che richieda una riflessione per poter essere riconosciuto. Quello che accade sulla scena è sempre riconducibile alla sfera dell’azione, gli spettacoli sono atti. Ma un atto è qualcosa che è sempre già accaduto, a cui si assiste e che non può essere cambiato, né tantomeno scambiato con altri, in definitiva non può essere condiviso, perché nella sua percezione riguarda sempre un singolo spettatore. Nel mito un atto è quello che viene compiuto da chi fonda una città, è qualcosa che accade una sola volta ed è irreversibile. Gli atti sono univoci e irrevocabili, mentre i detti lasciano spazio alla condivisione e vivono e si modificano proprio nella loro natura di discorso. Gli atti, come l’Actus apostolorum, hanno fondato una nuova religione, proprio nella stessa epoca in cui a Roma si diffondevano i detti degli oracoli caldei, e la grande sapienza dell’Asia si diffondeva in occidente. Ma la contrapposizione fra atti e detti, fra azione apostolica e discorso sapienziale non è qualcosa che si può relegare all’antichità. Quando ci troviamo di fronte ad un evento artistico assistiamo ad un atto che cela dentro di sé un detto, e il compito di chi anima un teatro è quello di creare le condizioni perché quel detto possa manifestarsi nel compiersi dell’atto che lo contiene. Altrimenti rimane solo il tema dello spettacolo, rimane la comunicazione, rimane il racconto, per quanto traslato, di una dimensione squisitamente letteraria. Allora l’evento artistico diventa un evento culturale. Molto spesso, quando si parla di manifestazioni artistiche, la cultura prende il sopravvento e si incarica di giustificare l’arte: l’arte produce benessere, l’arte genera posti di lavoro, l’arte ha un “impatto” sulla società. Quindi non bisogna temere l’arte, non bisogna temerne l’inutilità, perché in realtà l’arte è utile. Così la cultura nutre l’arte e al tempo stesso l’avvelena, la ingloba in sé mettendola al pari di tutte le sue altre molteplici manifestazioni, la rende innocua, anzi, la rende utile. Utile come atto, mentre il suo essere un detto viene consapevolmente obliato.
Un teatro non dovrebbe essere un luogo di cultura, un teatro è uno dei luoghi possibili dove l’arte può lanciare la sua sfida alla cultura, può combattere la sua lotta contro di essa. Dove i termini siano finalmente ribaltati, e la conoscenza può avere il sopravvento sulla “competenza”. E allora diventa possibile rintracciare, sotto le spoglie dello spettacolo, quanto di vitale e politico anima l’ispirazione e la responsabilità di un artista, la coerenza a una visione del mondo, qualsiasi essa sia, che non si esaurisce nell’opera. Perché l’opera, per lo più depotenziata dal suo stesso carattere di opera e dalla cultura che la genera e se ne serve, è solo la traccia di uno scenario più vasto, un’espressione che tenta di contenere un’animalità altrimenti indicibile e destinata, per la sua fragilità, a non rappresentare mai nulla di definitivo, mai nulla di assoluto se non riferito al momento della sua creazione. In questo senso il teatro è un’esperienza più prossima di altre alla vita autentica, non perché qui e ora accada qualcosa di vero, ma perché qui e ora accade qualcosa che possiamo riconoscere come rappresentazione, qualcosa che è falso in modo innegabile, qualcosa cioè a cui è possibile veramente credere.