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Il modo con cui si tratta il mito corrisponde a ciò che si pensa sia il mito. Il modo con cui si tratta un mito corrisponde a ciò che si pensa sia la sostanza di quel mito. Anche oggi funziona così, come sempre nella nostra storia. È quanto vien fatto di

pensare in relazione a “Venere e Adone. Siamo della stessa mancanza di cui sono fatti i sogni” lo spettacolo che Roberto Latini ha realizzato come monologo, ricavandone la drammaturgia anzitutto dall’omonimo poemetto di Shakespeare e poi da altre fonti, quali le Metamorfosi ovidiane e una straordinaria serie di opere di artisti tra cui spiccano Tiziano e Rubens. In questo caso, per Latini, il mito si delinea (e assume significato) come “mancanza” ed è una ipotesi di conoscenza angosciante eppure feconda. Inoltre, siccome le parole vanno utilizzate in modo preciso, è necessario chiedersi anche in che senso alla base di questo lavoro di Latini c’è una drammaturgia? Qual è il nodo drammaturgico di questo lavoro? È una domanda necessaria dato che il punto di partenza per la costrizione dello spettacolo è un testo narrativo. O, meglio, si trova in un testo narrativo. Il nodo drammaturgico è la tragedia di un amore mitico, quello di Afrodite per Adone, il bellissimo giovane nato dall’incesto di Mirra col padre Cinira: un amore che nasce avvelenato (la dea s’innamora del giovane bellissimo per una freccia scagliata involontariamente da Eros) e che, pur non potendo esser vissuto per la contrarietà del giovane, si dispiega devastante fino alla morte/metamorfosi e alla primaverile rinascita di Adone. Adone muore e rinasce come fiore, l’anemone bellissimo. Latini osserva questa vicenda mitica (assai più complessa per la verità) da una prospettiva di consapevole contemporaneità e, nel costruire lo spettacolo, prima la destruttura articolandone l’insieme magmatico in cinque segmenti (Amore, Cinghiale, Adone, Venere, Chiunque) non necessariamente sequenziali, poi la riposiziona nella sensibilità contemporanea e dimostra così che noi siamo già oltre la disillusione rispetto a un amore tormentato, impossibile, malvissuto, finito: l’amore è diventato mancanza. Una mancanza con la quale non tanto il nostro essere personale ma la nostra antropologia deve fare i conti. Ecco il cuore concettuale dello spettacolo: vivere, continuare a vivere, affrontare la morte persino, in una dimensione di mancanza, di vuoto e di silenzio, di desiderio frustrato per sempre e di comprensione mai piena della realtà dell’oggetto d’amore. In questo contesto, e parallelamente, anche il mito si fa mancanza, si fa spasimo e mancanza anche quel mito che fino a ieri ha raccontato la realtà, l’ha spiegata e l’ha plasmata autoritariamente. Oggi quel mito è ammutolito piuttosto, surclassato e strozzato dai nuovi simboli del potere, da simboli commerciali o tecnologici e da narrazioni ideologiche nuove e violentemente assertive. È la fine di un assetto di senso che, se non compresa e razionalizzata, porta a una mortale paralisi nella costruzione del futuro (sociale e personale), anche laddove questa paralisi si traveste da passiva idolatria per scienza e tecnologia (ecco il cane robot giocando col quale il performer chiude lo spettacolo tra malinconia e amaro sarcasmo). Non a caso il celeberrimo verso della Tempesta shakespiriana viene citato e riscritto da Latini, così da registrare il cambio di prospettiva antropologica: “siamo della stessa mancanza di cui sono fatti i sogni”. Ecco allora il senso di una relazione che non è sostanza ma mancanza, ecco in parallelo la nuova prospettiva di comprensione del racconto mitico che non è più presente tra noi come sostanza che dà senso, ma come mancanza che comunica in quanto mancanza. Una mancanza che ci toglie senso e che, se non compresa come tale, ci rende irrimediabilmente fragili e incapaci di capire e costruire il nostro essere. Viene in mente il paradigma che elabora Pasolini a proposito del passaggio da Erinni a Eumenidi nell’Orestea di Eschilo inteso come superamento positivo del lutto, oltre e senza l’elaborazione negativa della vendetta. Un lavoro di sorprendente profondità concettuale insomma questo “Venere e Adone”, che nasce nel contesto della produzione e del linguaggio teatrale di un artista (artista, regista, performer, attore, narratore) autentico, sensibilissimo e che sta giocando il suo percorso creativo su una riflessione mai banale sui temi dell’amore, del mito, della morte, del significato profondo della rappresentazione teatrale come luogo di ricerca di senso. Ciò non toglie che anche questo spettacolo, come altri suoi lavori, possa essere (e sia) appesantito talvolta da un certo eccesso d’intellettualismo che lo rende, in alcuni snodi e segmenti, se non inaccessibile, sicuramente respingente agli occhi di tanto pubblico. E tuttavia intelligenza ed emozione insieme, autenticità di concezione, originalità di linguaggio e serietà nell’ingaggio politico con la realtà sono garantite anche in questo monologo, e non è poco. Visto a Catania, nello spazio scenico di ZO il 9 dicembre 2023.

Roberto Latini “Venere e Adone. Siamo della stessa mancanza di cui son fatti i sogni”. Catania, spazio ZO 9 dicembre 2023.  Da Shakespeare di e con Roberto Latini. Musica e suoni di Gianluca Misiti. Luci di Max Mugnai, costume di Gianluca Sbicca, scena di Marco Rossi. Produzione: Compagnia Lombardi Tiezzi.

Foto di Simone Cecchetti e Julie Schaming.