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A Ravenna c'è un luogo ove, decantandosi quasi in esso la diversa ma coerente sapienza di Ermanna Montanari e di Enrico Pitozzi, la vita della voce limpidamente 'vive', ed è solo apparente tautologia, come in un consueto miracolo. Questo luogo,

quasi a riabilitarne la suggestione onomastica, è “Palazzo Malagola”, sede dell'omonimo “Centro di Ricerca e Sperimentazione Vocale e Sonora” diretto dagli stessi Montanari e Pitozzi, scuola assai singolare e in qualche modo unica anche nella sua dimensione internazionale, un luogo in cui il suono scopre e si scopre nella sua più estetica espressione quando, tra significato e suggestione melodica, si modula nella voce umana.
Qui è stata allestita, e raramente un sito è apparso così profondamente appropriato, l'interessante mostra “Amorevolmente progredire, amorevolmente regredendo – La ricerca vocale di Demetrio Stratos – 1970/1979” che sarà aperta dal 6 al 22 dicembre.
L'occasione della mostra, curata anch'essa da Ermanna Montanari ed Enrico Pitozzi, è stata l'acquisizione dell'archivio del cantante e musicista pluri-polide, tra Egitto, Grecia e Italia, conferito dalle eredi di Stratos, Daniela Ronconi Demetriou (il vero cognome dell'artista come a tutti noto) e  Anastassia Demetriou, preso inizialmente in carico dal Comune di Ravenna per essere poi affidato agli spazi e alle amorevoli cure di “Palazzo Malagola” che lo custodirà, eventualmente integrerà con altre provenienze, e metterà a disposizione degli studiosi e anche di appassionati cultori.
Possiamo definire l'evento nella sua complessità un ritorno sperato e finora disatteso dopo che la morte colse l'ancor giovane musicista, nel 1979, a New York.
Un oblio, interrotto solo da occasionali apparizioni, dovuto forse alla difficoltà di capire a fondo la sua ricerca che, come giustamente suggerisce il titolo della mostra, è stata una sorta di regressione dal suo esito, in composizioni, canzoni e talvolta vere e proprie recitazioni, al suo eterno fondamento, alle radici di una espressività che affonda nel mito dionisiaco e nella sua concreta pratica storica ed esistenziale, quel 'coro' di cui il Teatro delle Albe di Ermanna Montanari e Marco Martinelli subisce da tempo il fascino 'indiscreto'.
In fondo la ricerca di un fondamento che potesse dare alla voce senso completo e giustificata legittimazione, nella sua capacità di rintracciare ed esprimere l'essenza di un vivere l'esserci in un mondo che si fa sempre più oscuro, quasi metafisicamente sordomuto in cui ci si perde e si rischia costantemente di perdere la nostra vera anima.
Ora, per merito di pochi sapienti come insegna la Bibbia, questo ritorno è accaduto e può concretamente e spiritualmente essere goduto nel percorso di una Mostra che riscatta ogni tentazione museale per ri-mettere in gioco una esperienza stra-ordinaria.
Oltre ciò che si vede, tra manoscritti, spartiti, lettere e riflessioni che costellano quel percorso, e che non vogliamo anticipare, è ancor più affascinante ciò che si può sentire nelle due sale 'sonore' che ripercorrono le singole tappe dello studiare cantando di questo artista, dalla rivisitazione della sua tradizione mediterranea in una sorta di 'vivisezione', all'acceso alle vocalità dell'Estremo Oriente nell'insegnamento del vietnamita Tran Quang Hai, da John Cage all'ultimo Artuad, che del e nel teatro cercava soprattutto la scaturigine della voce, di cui registrò nel 1979, per forse non casuale coincidenza ultimo anno anche della sua vita, l'essenziale testamento “Pour en finir avec le jugement de dieu”.
Conseguente ma superfluo l'invito ad avvalersi con vivida presenza di una simile occasione.