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Una Dramaturg soprattutto, nel senso più profondo che alla funzione davano Renata Molinari e Claudio Meldolesi, così mi sento di definire Tolja Djokovic la cui drammaturgia è capace di integrare la dimensione letteraria, che è sempre singolare e

anticipa l'idea scenica, con una dimensione collettiva sia dal punto di vista delle relazioni operative che, in particolare, da quello dei linguaggi attraverso i quali quella dimensione letteraria cerca e trova il suo accadere scenico. Dramaturg, dunque, non come funzione limitante ma come forma che integra e modifica. Tolja è  anche in questo espressione del nuovo che, senza negare o recidere radici, si mostra nella drammaturgia femminile. L'esito di questo incontro è la conversazione a distanza che ne è scaturita.

Tolja, l'attuale sembra finalmente, e aggiungo fortunatamente, il tempo delle drammaturghe, quasi che le donne si fossero finalmente rivolte e abituate, per così dire, alla parola scenica,  o come se la strada aperta tanti anni fa da una quasi solitaria Dacia Maraini si fosse finalmente animata. Sembra anche a te, che da un po' la frequenti, una opinione corretta?

Mi sembra sicuramente un tempo di apertura e di interesse (reale o formale) verso le voci delle donne. Nel bene e nel male questo interesse apre delle fessure in cui è, forse più di prima per le autrici e le registe, possibile infilarsi. Credo che ci siamo sempre rivolte alla parola scenica, e tu citi proprio l’esperienza delle Maddalene in cui Maraini era parte di un nutritissimo gruppo di voci in rivolta che aveva eletto il teatro come luogo della lotta. Vedo bene la correlazione: uno spettacolo non si può fare in solitudine, è necessaria una rete, un sistema di relazioni, una dinamica collaborativa, quindi al di là del precipitato che si risolve nello spettacolo, il teatro è il luogo perfetto per sperimentare alleanze e pratiche politiche e solidali, proprio per la sua struttura interna. Credo che questa possa essere una caratteristica di questo tempo così intransigente e duro, emerge il lavoro delle donne legato non soltanto alla visibilità che ci viene data in maniera opportunistica o reale, ma grazie alle esperienze concrete, non neonate, non nuove, non emergenti di scrittrici, registe, operatrici, gruppi artistici, collettivi, curatrici che si stanno rafforzando, a volte istituzionalizzando, a volte semplicemente allargando attraverso relazioni sempre più estese.

La tua scrittura pare intercettare il reale della relazione con il mondo e con l'altro senza utilizzare il dialogo, che della drammaturgia è un elemento ritenuto spesso essenziale. Ritieni così di esprimere una solitudine, più che esistenziale, che non può essere infranta?

Per quanto riguarda En abyme e Lucia camminava sola, la ricerca andava in una direzione in cui il dialogo, nel senso di conversazione, esiste, ma non esiste nella sua forma retorica. I blocchi di senso costruiti nelle singole parti sono in dialogo costante tra loro per immagini, analogie, richiami espliciti o nascosti ma in qualche modo visibili, e questo concerto produce castelli di senso, come in una conversazione. La domanda guida era se fosse possibile inserire gli spettatori e le spettatrici in questo flusso, se fosse possibile dare a chi sente, guarda, legge, uno spazio libero in cui operare dei collegamenti, in cui far vivere connessioni proprie intorno a un tema dato (l’abisso, il corpo femminile). Forse in questo senso sì, mi sembra che l’esperienza della visione sia un’esperienza ambigua, collettiva e solitaria nello stesso tempo, che mi piacerebbe celebrare. In teatro siamo tutti insieme a guardare e sentire la stessa cosa, e i miei testi di sicuro non forniscono interpretazioni univoche, ma desiderano che ognuno costruisca il suo percorso. Forse è anche qui che la solitudine si infrange, quando chiedo allo spettatore e alla spettatrice di essere un po’ drammaturgo della sua propria esperienza, in dialogo attivo con la mia proposta. 

Nei testi tuoi che ho potuto approfondire, in effetti, la comunicazione appare possibile non tra i personaggi che, come pianeti percorrono la loro solitaria traiettoria in scena, ma solo tra questi la drammaturga che esteticamente ne controlla la forza centrifuga. In questo modo il teatro può, secondo te, essere una via di uscita dal silenzio e dal dolore che questo silenzio relazionale provoca in ogni individuo?

Certamente, il teatro è di sicuro una via d’uscita dal silenzio. Tuttavia il teatro si nutre di silenzio, di pause, di misteri. Per me è molto importante che rimangano sospesi degli enigmi, e che un testo molto verbale (penso a Lucia, a En abyme, ma anche a Discorso delle Dorotke che ho scritto per la mia compagnia), che lavora con la parola, riesca a non esaurirsi in spiegazioni, in opinioni, in manifesti. Quella che tu meravigliosamente chiami la traiettoria solitaria dei personaggi è proprio un’orbita, e come tale esiste solo in funzione delle altre orbite degli altri pianeti. Il mio compito in effetti è in parte quello di far si che queste orbite siano strettamente connesse, che siano interdipendenti, in dialogo costante, in relazione perpetua, e illuminare questa relazione che è ciò che tiene insieme il testo, pena la morte.

Hai esordito nel 2010 con una performance ispirata ad un rapporto epistolare, poi, dopo la tua scelta di specializzazione come dramaturg a Bologna, hai firmato un radio-dramma, e ora la scena. È un ingresso nel teatro in cui l'aspetto più specificamente 'letterario' sembra in ombra. Questo dipende da una tua scelta?

Non saprei dirlo con certezza, quello che capisco guardando il mio percorso è che l’aspetto letterario è sempre stato fondamentale e che nella mia ricerca il letterario non esclude mai il teatrale, e viceversa. Il rapporto tra letterario e teatrale è un tema che risuona fortissimo quando lavoro, e come tu dici esiste come un’ombra, direi una buona ombra, naturale, fisiologica, quella prodotta da un corpo esposto alla luce. La sento così, organica e fondamentale, come ho sempre sentito organico il rapporto con la letteratura, che è una delle fonti principali del mio lavoro di drammaturga, e direi di sicuro la base fondamentale della mia formazione. Sento che i testi che scrivo sono cittadini di entrambi i paesi. 

Tra l'altro utilizzi come chiave di accesso, o di lettura, alle tue ultime drammaturgie il riferimento al 'documentario'. Se in En Abyme usi il documentario di Cameron come scenario, definisci Lucia camminava sola, che ha vinto l'ltimo Premio Riccione per il teatro, addirittura “materiali per un documentario”. Cosa rivela questo tua specifica scelta di sintassi scenica, al di là del utilizzo di una multimedialità oggi piuttosto diffusa nel teatro non solo italiano?

Oltre al rapporto con la lingua, con le possibilità che la lingua offre di creare immagini, mondi, di creare realtà, un argomento che mi interessa molto è quello dell’immagine non immediatamente narrativa. Dopo En abyme avevo ancora bisogno di sperimentare, e quando ho incontrato la storia di Lucia mi sono chiesta come parlare in teatro di una storia del 1700 senza farla diventare narrativa, tentando cioè, la via documentaristica. Il tentativo di Autrice, nel testo, è proprio questo: vuole raccontare la storia di Lucia in un documentario. Tuttavia, il suo tentativo fallisce perché la relazione con questa donna del passato spinge autrice verso qualcosa di molto personale, verso una narrazione imprevista che deforma il suo documentario, lo distorce. La multimedialità per se stessa non mi interessa per nulla, il tema teatrale che pongo è: se da drammaturga offro un film tra i materiali, cosa può diventare in scena? Che utilizzo ne possiamo fare? Il film, nel testo, è personaggio, reagisce e agisce sulla scena ponendo, a chi mette in scena, una domanda (anche solo: faccio un film, o prendo un’attrice che reciti il film?), e offrendo a chi guarda un ulteriore livello di significato e di fruizione.

Un'ultima domanda. Tu sei drammaturga e regista del gruppo 'tostacarusa' fondato con Aura  Ghezzi. È evidente nel nome il riferimento forte al 'femminile'. Quale è dunque il mondo da cui ritieni di provenire, le costellazioni guida cioè, e quello cui vuoi rivolgerti?

Mi rendo conto che è molto evidente. Il nome ‘tostacarusa’ è un omaggio a Goliarda Sapienza, che ci ha unite per il nostro primo lavoro. La protagonista de L’arte della gioia viene chiamata (da chi la ama) carusa tosta: ragazza testarda, tenace. Abbiamo dedicato il nome a questa tenacia, come celebrazione ma anche come augurio, che possiamo essere tenaci e testarde in questo viaggio. 
Il mio percorso artistico viene da zone periferiche, indipendenti, fuori moda, zone in cui i passi sono lentissimi ma costanti e i progetti di lunghissimo periodo, in cui le frustrazioni abbondano ma arrivano insieme a grandi lussi, come l’autonomia e il tempo. Sapienza torna anche qui, con la sua dedizione totale, selvaggia, autonoma e disperata di fronte a un sistema editoriale che l’ha rifiutata costantemente mentre era in vita. Anche altri e altre sono stati per vari motivi marginali con dedizione: Burgeois, Campo, De Cespedes, Le Guin, Lispector, Landolfi, London, Poe, Milani, Deligny, Montessori.  Aggiungo anche che in parte il mio mondo è quello della scuola, lavoro che amo moltissimo e che mi radica nella realtà. Penso che i miei allievi e le mie allieve mi tengano costantemente attiva sul tema del pubblico: per chi scrivo, per chi penso le opere, per chi faccio. Sono molto bravi e brave a smontare le mie credenze, a offrirmi nuovi punti di vista, a pretendere qualità di presenza, responsabilità e leggerezza. 'Una passeggiata'.

Foto Marco Ranocchio