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Luca Barbareschi sfiora il caso umano.  Attore sublime (secondo il proprio giudizio) o semplicemente buon attore medio (secondo i più), calca le scene e occupa gli schermi da sempre, senza essere mai riuscito veramente a “sfondare”,  malgrado – parole sue – “i film e le fiction e il teatro fatto in Italia… i 130 show in America, musical a Londra, 7 film in Francia e 14 in Germania.”   Probabilmente egli stesso si è reso conto che non sono nè la quantità dei prodotti né la fantasia psicomotoria che possono garantire il successo; per cui ad un certo punto si è gettato in politica, schierandosi di qua e di là (peraltro sempre a destra, come da sue legittime convinzioni), e culminando la zigzagante evoluzione con un recente balletto di finte e controfinte, che egli stesso ha dichiarato avere il mero scopo di attirare un po’ d’attenzione sul film che sta per lanciare. Su questa strada ha lasciato Berlusconi, si è schierato con Fini, ha finto un ritorno con il PDL, ha fatto marcia indietro,  ha chiesto la nomina a presidente della commissione cultura, ha litigato con Fini che lo ha invitato a star tranquillo, lo ha coinvolto in una rissa con lancio d’oggetti, ne ha richiesto le scuse… è riuscito insomma a far sì che i giornali si occupassero di lui, e del “pasticcio che aveva inventato” (sempre parole sue), alla Camera, fotografandosi con il dito sul rosso per poi votare bianco, in non so quale importante votazione. In effetti, qualcosa ha ottenuto: interpretabile come “a one in a billion shot” (ovvero: “pensa che combinazione!”) la TV nazionale ha trasmesso in febbraio il suo “Trasformista”, che non è – come un’anima candida potrebbe pensare – un autoritratto o un’autobiografia (tali le “Confessioni” di Sant’Agostino), ma che vorrebbe essere una violenta denuncia del sistema. Di fatto ha raccattato una audience del 3 per cento, rimanendo ancora al palo per quel che riguarda la sua smaniosa e smaniante speranza di “sfondare”.
Tra gli effetti di questo suo tramestare interpartitico e intercorrentizio, c’è anche il fatto che questo “pezzo”  si è finora occupato più di teatrino delle politica, che non  di teatro tout court, come dovrebbe.  Torniamo dunque a bomba, completando il ritratto artistico e antropologico del nostro. Di più che agiata famiglia milanese (nato peraltro a Montevideo), iperattivissimo dappertutto, come attore, regista, produttore e altro, in teatro smentisce il patriottismo cui divrebbe essere dedito come MIS o AN, per una cieca anglo e americo-mania, che lo porta ad inscenare pressochè in esclusiva autori di lingua inglese  (Shepard, Ayckburn, Elton, William, Blasband, Shaffer) con particolare attenzione per David Mamet (di cui peraltro, tanto per non scordare l’utile accanto al dilettevole, si è accaparrato i diritti).  Il suo migliore spettacolo?  Guarda caso, “Il sogno del principe di Salina”, liberamente tratto dal “Gattopardo”, senza che peraltro si riveli il nome del riduttore, forse perché vergognosamente “italiano”. Il che dà a pensare su che cosa il pur mediocre Barbareschi avrebbe potuto fare, guardando più al di qua che al di là dell’Atlantico. Che lui non mi sia particolarmente simpatico, il lettore a questo punto dovrebbe averlo capito: ma anch’io, come tutti, ho i miei circuiti mentali e i miei riflessi condizionati.   Barbareschi mi ricorda Mamet, e di Mamet non posso dimenticare la misteriosa battuta per sempre incisa nella mia memoria, e su cui da decenni indarno rifletto: “Nei treni tutti gli scompartimenti hanno un certo  odore di merda”.   Superiorità  gnoseologica dell’avanguardia?  Mah!

Per gentile concessione della rivista Qui-Libri, ed. La Vita Felice, Milano