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Per la prima volta in Italia, giunge in scena un’opera giovanile di Koltès, composta ad appena ventidue anni. E, non a caso, fautore di questa “scoperta” è il regista Andrea Adriatico che, a partire dal 1991, si è attribuito il meritorio compito di far

conoscere anche in Italia i testi del drammaturgo francese, concentrandosi anche su titoli meno conosciuti e su scritti non specificatamente teatrali. Ecco, dunque, l’approdo a questo dramma frammentario, sedici quadri autonomi ed eterogeni – per lunghezza e natura, ora dialoghi, ora soliloqui, ora sola azione fisica – pur nel ricorrere di alcuni personaggi – il vecchio e la vecchia, Varvara, Piotr, Michail… Il giovanissimo Koltès aspirava a tradurre nel linguaggio scenico Infanzia, il romanzo autobiografico di Maksim Gor’kij, autore che il drammaturgo tramuta in protagonista muto, Alexis – il vero nome del russo. E d’altronde, a spiegare quanto meno in superficie il titolo del dramma, Koltès era a conoscenza che lo pseudonimo Gor’kij significa “l’amaro”. Ma il drammaturgo francese, poco più che adolescente, sapeva bene che quella peculiarità auto-ricosciutasi dallo scrittore sovietico era frutto di un’esistenza trascorsa fin dalla più tenera età fra innumerevoli difficoltà, nella miseria e nella precarietà, economica e soprattutto affettiva: «L’hanno aggredito con la violenza e la rapidità della grandine e del vento, senza che un tratto del suo volto abbia avuto un fremito. Stracciato, bruciato, in piedi finalmente, ha fermato gli elementi come si soffia su una candela. E la sua voce ha trafitto il silenzio». Con queste parole Koltès terminava il programma di sala per la prima rappresentazione del suo dramma – avvenuta nel 1970 a Strasburgo, con la stessa regia e la sua presenza sul palco nei panni proprio di Alexis/Maksim.  
Adriatico prende dunque in mano il copione, apparentemente acerbo e farraginoso ma in realtà palpitante di “amara”, acida verità, e ne pone in evidenza la bruciante universalità, sottoponendolo ad alcuni innesti testuali, del tutto coerenti e inerenti, a partire da una riflessione, contenuta anch’essa nel succitato programma di sala, in cui Koltès ribadisce la natura di serissimo “gioco” del medium teatrale. E, ancora, altri testi risalenti agli anni successivi, alla maturità del drammaturgo, e riguardanti, per esempio, Cassius Clay ovvero la capoeira: in entrambi i casi il tentativo – vano alfine – di addomesticare l’innata violenza degli uomini… E in violenza – fisica e verbale, psicologica ed “economica” – consistono proprio le “amarezze” sperimentate più o meno direttamente da Alexis che, nella rigorosa e allo stesso tempo viscerale regia di Adriatico, osserva quanto avviene in una sorta di recinto rettangolare, avvolto nella semi-oscurità. Lungo i suoi lati più lunghi siedono gli spettatori, fatti entrare con brusca impazienza a gruppi di quattro e obbligati a sedere dove viene loro indicato: non si tratta, nondimeno, di una velleitaria e forse un po’ anacronistica pratica da avanguardia bensì il coerente precipitato di un disegno registico che mira ad assecondare e rendere chiara la poetica di Koltès. Al pubblico è concesso di assistere all’”umiliazione” degli attori – all’inizio e alla fine nudi, sottoposti a pressioni psicologiche e inclini a meschine eppure umanissime rivalità, costretti a sforzi fisici e ferite che i cerotti, che a un tratto compaiono, non possono certo saturare – e, quindi, quasi inevitabilmente, deve scontare il privilegio che gli è concesso ricevendo un trattamento ruvido, fino alla finale intimazione a lasciare il più veloce possibile la sala… Non si può certo pretendere consolazione né catarsi – neppure quella “surrogata” rappresentata dagli applausi finali – ma conservare nella mente immagini e parole che dicono delle miserie che gli uomini, da sempre, amano infliggere e financo subire. Nei vari quadri, che si susseguono senza alcuna soluzione di continuità, quasi un incubo protratto ovvero il flusso di coscienza di una mente suo malgrado oscura, vediamo mogli distese sui cadaveri martoriati dei mariti ma anche donne sottomesse e atrocemente angariate, genitori e figli oramai ignoti gli uni agli altri, anziani abulici ovvero incattiviti… All’interno dell’ampio recinto, una raffinata culla di legno, apparente simbolo di un’auspicata palingenesi che, tuttavia, le “amarezze” portate in scena costantemente vanificano. Il “gioco” del teatro cui Koltès chiede agli spettatori di partecipare è un’esperienza tanto irrazionale – l’indicibile illogicità del male – quanto precisamente regolata; non un passatempo né un semplice “intrattenimento”, quanto, appunto, un mettersi “in gioco”, accettare – o meno – una – grande o minima – trasformazione… Un “gioco” di cui Adriatico e il suo consapevolmente disciplinato ensemble di attori sanno rinverdire con coinvolta intransigenza le regole, felicemente attivando il pensiero e il senso critico degli spettatori. E non è poco… 
         
Testo di Bernard-Marie Koltès. Traduzione di Marco Calvani. Regia di Andrea Adriatico. Scena di Andrea Barberini, Giovanni Santecchia. Con Olga Durano, Marco Cavicchioli, Anas Arqawi, Michele Balducci, Innocenzo Capriuoli, Rita Castaldo, Ludovico Cinalli, Nicolò Collivignarelli, Alessio Genchi, Giorgio Ronco, Myriam Sokoloff. Prod. Teatri di Vita; con il contributo di Comune di Bologna, Regione Emilia Romagna, Ministero della Cultura.

Visto a Teatri di Vita, Bologna, 20 gennaio 2024