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Osservare, quando si ha la possibilità, il teatro internazionale comodamente a casa, o meglio in uno dei teatri della propria città, è davvero un’occasione preziosa e un regalo importante. Attesa da mesi, la produzione giapponese di FORTRESS OF

SMILES approda a Napoli e genera un movimento culturale interessante, dagli incontri con l’autore e regista Kuro Tanino e con la sua compagnia, Niwa Gekidan Penino, rivolti non solo agli studiosi e agli appassionati di teatro, ma soprattutto agli studenti dell’Università L’Orientale di Napoli, alle interviste, agli approfondimenti e all’allestimento del foyer del Teatro Bellini di Napoli in stile giapponese. L’atteso debutto napoletano dello spettacolo sostenuto dall’ Agency for Cultural Affairs (Government of Japan) è avvenuto il 21 febbraio e le repliche si sono protratte fino al 25 febbraio, attraverso un continuo affluire di spettatori che hanno riempito il teatro durante tutte le giornate, tanto da attivare una vera e propria corsa al biglietto. Platea e palchi ricchi di pubblico, soprattutto giovani studiosi, e in seconda fila presente l’autore e regista che osserva con attenzione tutto ciò che avviene in scena.
L’analisi di questo spettacolo si evolve attraverso un necessario e naturale confronto con il teatro italiano contemporaneo, affinché si percepiscano differenze, si approfondiscano visioni e punti di vista diversi o sovrapponibili. 
Lo spettacolo è ambientato nella contemporaneità, visto l’uso degli smartphone in alcune scene, ed è tradotto in italiano attraverso sovratitoli posti sopra il palco e proiettati attraverso uno schermo. La scena è incorniciata da un telo nero che conduce lo sguardo dello spettatore verso punti fissi della complessa scenografia, come se l’intero palcoscenico fosse inserito all’interno di un’inquadratura cinematografica. La regia riproduce in scena gli interni di due case giapponesi e quello che sicuramente colpisce lo spettatore italiano è l’attenzione per i particolari, per la scelta degli oggetti, anzi per l’eccesso di oggettistica in scena. Nelle ristrettezze di piccole camere di abitazioni giapponesi sembra non mancare nulla, dalla cucina, al bagno, ai tavolini e soprattutto il cibo. L’attenzione al particolare si riproduce anche nei suoni, alcuni di questi inimmaginabili in uno spettacolo italiano contemporaneo: alcuni attori entrano in bagno e dopo poco tirano lo sciacquone che riproduce il tipico rumore, percepito chiaramente dal pubblico. Il suono e il riflesso di un televisore acceso durante la notte, una sigaretta, i rumori del cibo cucinato o riscaldato e realmente mangiato dagli attori, il rumore dell’apertura delle lattine, le voci in altre stanze, il suono dei cellulari, lo scricchiolio del legno, lo scroscio incessante della pioggia, tutti questi elementi “recitano” costantemente insieme agli attori. La pioggia, appunto, cade copiosa sopra i tetti e sopra le tegole delle basse case giapponesi ricostruite minuziosamente in scena e il rumore delle grosse gocce sembra entrare dentro il teatro. Si apre una finestra scorrevole, immaginandone i vetri, si esce fuori, l’Oceano si infrange sulla spiaggia vicina, il rumore di pioggia è intenso, si richiude la finestra e il rumore diminuisce. L’attenzione ai particolari si riversa su ogni singolo elemento, dai suoni agli oggetti, e ci sembra di sentire ogni singola goccia e tutta l’umidità del luogo in cui è ambientata la vicenda. L’odore del cibo cucinato o riscaldato, inoltre, sale davvero in alto, verso i palchi, e colpisce l’olfatto degli spettatori. 
Sbirciamo dentro i due appartamenti adiacenti, ma, in verità, ci sentiamo parte integrante ed ospiti di entrambi. Il protagonista, uomo di mezza età, vive in un piccolo appartamento che si affaccia sull’Oceano; è un pescatore che conduce una vita semplice, ma faticosa, con sveglie all’alba. Convivono periodicamente con lui altri personaggi, giovani aiutanti pescatori e un nuovo arrivato, uno studente che cerca di recuperare del denaro nei periodi in cui non deve seguire le lezioni o non deve affrontare degli esami. La vita scorre apparentemente senza nessun intoppo, ripetitiva e scarna. Gli uomini si ritrovano spesso a cenare insieme, a giocare a carte, a chiacchierare e a svuotare lattine di birra o bottiglie di alcolici orientali, ridendo e parlando di argomenti superficiali. Questa narrazione accompagna lo spettatore a lungo, soprattutto durante la prima parte dello spettacolo e caratterizza, con grandissima lentezza, azioni e conversazioni, affinché il pubblico possa ricostruire pian piano la storia e possa conoscere i personaggi come se fossero davvero dei vicini di casa. L’appartamento accanto a quello del nostro protagonista è vuoto: si riempirà silenziosamente perché occupato da nuovi e riservati vicini di casa, provenienti da altre zone. 
L’intero lavoro è costruito sui contrasti, sebbene la doppia storia si intersechi solo oltre la metà dello spettacolo, secondo un’esigenza che sembra diventare necessaria per tutti gli spettatori che si chiedono se mai le due famiglie entreranno in contatto. La “Fortezza dei sorrisi”, cioè il titolo, è la chiave per comprendere una narrazione scenica costruita attraverso un fortissimo realismo, scenico e recitativo, esso stesso protagonista di tutte le azioni e di tutti i dialoghi, elemento che caratterizza la lentezza attraverso cui la storia si svolge. La volontà del regista e autore si orienta verso un’attenta osservazione di ciò che in genere tralasciamo nella vita quotidiana, di ciò che osserviamo superficialmente e che invece nasconde altro. Il nuovo vicino di casa trasferisce l’anziana madre malata nell’appartamento vuoto, perché la donna ama vedere il mare. La figlia, e nipote dell’ammalata, sembra attratta unicamente dal mondo esterno che entra in queste case solo attraverso i mezzi di “distrazione”, cellulari e televisione. L’autore, nonostante sia cresciuto in una famiglia di psichiatri e anche lui abbia lavorato in questo ambito, si sofferma su tematiche apparentemente banali e quotidiane, lontanissime in verità dalle riflessioni filosofiche, psicanalitiche, politiche e spirituali che spesso il teatro occidentale, antico e contemporaneo, riporta sulla scena obbligan lo spettatore ad affrontare elucubrazioni complesse che spesso rimangono limitate ad un’interpretazione accessibile solo ad alcuni osservatori.
Il nuovo vicino di casa è preoccupato per l’avanzare della malattia della madre, per l’assenza della figlia che non rispetta la nonna e per la degenerazione psico-fisica dell’anziana (che probabilmente ricorda alcuni aspetti della formazione psichiatrica dell’autore e regista), ma è preoccupato anche per la mancanza di rispetto che ha mostrato nei confronti dei vicini che non ha conosciuto e ai quali non si è presentato subito, come si è soliti fare dopo un trasloco. La cultura orientale che propone il rispetto, altro elemento cardine, si sofferma sul contrasto tra i valori del passato, cioè il rispetto per gli anziani, per la famiglia, per le persone con le quali si condividono spazi e luoghi, e la superficialità del mondo contemporaneo, legato alla routine o alle “distrazioni”. Quest’ultime si collocano, inevitabilmente, alla base della costruzione della quotidianità e rappresentano uno schermo salvifico dietro cui l’uomo cerca di nascondersi per evitare le difficoltà, per non approfondire i rapporti, per non affrontare i problemi. Quando il nostro protagonista, alla ricerca di un gatto randagio che sfama, davanti alla sua finestra, sotto la pioggia, intravede la situazione di precarietà e di malattia che vive la nuova famiglia dei vicini, sbirciando attraverso le finestre e le verande, si rende conto che tutte le risate e le baggianate che caratterizzano le sue serate ridanciane, in compagnia dei suoi amici e colleghi, crollano improvvisamente davanti alle problematiche che angustiano la famiglia vicina. Comincia a riflettere sulla solitudine, sull’assenza di una famiglia e di figli, fissando il buio della notte, attraverso una televisione accesa che manda in onda programmi inutili o analizzando la figura del protagonista all’interno di un film western americano.
L’autore sceglie di distinguere, di contrapporre e di sovrapporre due mondi diversi che inevitabilmente e forzatamente vengono a contatto; anche la lingua e la gestualità appaiono completamente diverse, rumorose, volgari, poco eleganti, quelle dei pescatori, lente, opacizzate, timorose quelle dei nuovi inquilini.
Lo spettacolo non presenta inaspettati colpi di scena, in quanto accompagna per mano gli spettatori all’interna della storia e ci si accorge che le tematiche, le battute, le relazioni non sono costruite attraverso una struttura innovativa o rivoluzionaria. Si sceglie infatti di ancorarsi alla semplicità delle tematiche e delle riflessioni che ci insegnano a considerare la vita come un naturale ed inevitabile flusso di domande e di vicende. 
I nuovi vicini svuotano l’appartamento e traslocano: qualcosa è accaduto, un periodo è finito, forse l’anziana signora è morta. Fuori dalla finestra del nostro protagonista fiorisce un ramo di ciliegio, l’inverno è finito, i suoi amici, alcuni davvero opportunisti, ritornano a far baldoria in casa sua, davanti ad un enorme vassoio di sushi. La primavera giapponese è legata ad un rito millenario, 
l’ “Hanami”, che descrive il ciliegio come simbolo della fragilità della vita poiché il suo fiore fiorisce e muore in breve tempo, insegnandoci ad apprezzare ogni singolo e fugace momento di felicità.
Le risate e le battute tra il pescatore e gli amici continuano rumorose e la fortezza dei sorrisi sembra essere ricostruita, dopo un profondo terremoto che ha provocato fratture e lesioni nell’animo del protagonista. Ci si chiede se le fortezze metaforiche e psicologiche che creiamo quotidianamente per sopravvivere alla vita siano così solide come pensiamo. La cultura orientale riempie ogni angolo del teatro con la sua poesia e con la sua profonda e filosofica osservazione della vita e dell’uomo.
Gli spettatori ringraziano tutta la compagnia con lunghi applausi, mentre gli attori e il regista si presentano sul proscenio con grande entusiasmo. Non possiamo dimenticare gli attori più anziani, in particolare proprio colei che interpreta l’ammalata e che, nonostante l’età avanzata, è uno degli elementi cardine dell’intero spettacolo, sebbene per lo più silenziosa durante tutto lo spettacolo.

Teatro Bellini Napoli 
21-25 febbraio 2024
FORTRESS OF SMILES
diretto e scritto da Kuro Tanino
con Susumu Ogata, Kazuya Inoue, Koichiro F.O. Pereira, Masato Nomura, Hatsune Sakai, Natsue Hyakumoto, Katsuya Tanabe
direzione di scena Masaya Natsume, Yuhi Kobayashi
assistente alla regia Kodachi Kitagata
scenografia Takuya Kamiike
disegno luci Masayuki Abe
sound designer Koji Shiina
tour manager Tsubasa Shimizu, Chika Onozuka
con il supporto di Agency for Cultural Affairs (Government of Japan)
con il sostegno di The Japan Foundation
uno spettacolo della Compagnia Niwa Gekidan Penino