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Si entra in un mondo poetico che confina, senza però quel confine mai varcare, con il metafisico, attraverso questa drammaturgia dal titolo “L'Oreste”, che sembra, come oggi spesso accade, parlare di sociologia della reclusione e della

manicomialità ma in realtà solo le attraversa, per accedere ad una Umanità universale che cerca, spesso purtroppo inutilmente, riscatto da sé stessa e comunque la catarsi dell'esserci nell'esserci qui e ora del teatro.
Rivive “L'Oreste” il quasi omonimo mito/epos eschileo della 'famiglia' micenea traslata in una cruda/crudele e materica Romagna di oggi, ma forse è solo la storia tragica di un bambino mai diventato uomo che si riconosce in quel mito antico, proiettandosi nel passato che ci unisce come in un viaggio sulla Luna che è dentro di noi.
Nessuna citazione diretta ma solo suggestioni omonime, ma proprio per questo profondamente radicate; infatti questa è una drammaturgia che fa della riscrittura, o addirittura del travestimento, la rampa di lancio (per restare in tema di ossessioni) per 'originalmente' conquistare il moderno nell'antico, o meglio l'oggi nell'universale.
In scena un solo attore, il bravo Claudio Casadio sul quale, come è nella migliore “dramaturgie”, il drammaturgo Francesco Niccolini costruisce il testo, in cui l'aspro dialetto di Romagna si fa lingua di una terra che è un'isola incastonata sul continente, come la Romagna Felix di tante compagnie di teatro, anticipando forse ma mai interferendo con la bella regia di Giuseppe Marini che costruisce l'aperto sul mondo, e non è un paradosso, nel chiuso di una cella di manicomio.
Siamo a Imola ma l'orizzonte mentale e sentimentale raggiunge, proiettandosi da quella stanza, la non lontana Marradi, la città natale del poeta Dino Campana, anche lui, e forse non è coincidenza casuale, a lungo 'trattenuto'  nel manicomio di Scandicci, ove morì.
Un solo attore che però non è 'solo' perché le figurative illustrazioni di Andrea Bruno non sono riflessi di un caleidoscopio impazzito, sono veri e propri personaggi che si contrappongono, quali deuteragonisti in questo monologo a più voci, all'Oreste come il ritornello di una canzone popolare e da ballo romagnola.
A tal punto che la stessa sessualtà, nel gesto coattivo che la contraddistingue, da onanistica si fa relazionale nel suo essere in intimo anche incestuosa.
Del resto questo al fondo era l'antica tragedia, una canzone popolare e da ballo (la “coreusi”) che si faceva immagine religiosa della comunità.
Ma ora il protagonista è l'Oreste, e quell'articolo che all'uso emiliano romagnolo anticipa il nome ne cambia prospettiva, orizzonti e aspettative, e se c'è la catarsi non c'è però alcuna assoluzione, nessun “Aeropago”, solo pallidamente specchiato nella Istituzione Manicomiale che, grazie al benemerito Basaglia, si rinnova, lo solleverà, come l'altro suo antenato senza articolo, dal peso del suo dolore e della colpa che quello stesso dolore 'espia'.
Della bella scenografia si è detto, semplice ma insieme straordinariamente ricca di oggetti, quasi un magazzino di un accumulatore seriale, va aggiunto che illustrazioni e didascalie, come detto veri e propri deuteragonisti, traggono dalla tradizione del teatro di figura, mescolando luci e ombre in una oscurità illuminata solo da una enorme Luna, la sua più efficace espressività, assai più linguistica che pittorica.
Lo spettacolo è profondo, coinvolgente e paradossalmente, ma non tanto, fa della sua stessa crudeltà un farmaco per lo spettatore che ne elabora spontaneamente asprezze e squarci sulla pelle viva della mente e del cuore.
Il bel testo ripercorre i temi della tragedia, mai citata esplicitamente, soprattutto nella ritmica della lingua, che non è verseggiatura ma musica che significa (bella quella originale di Paolo Coletta) e diventa melodia prosodica ed epica.
Riesce così, la messa in scena, ad essere attraente oltre l'asprezza e il doloroso farsi della narrazione che, alla fine, entra dentro e ci coinvolge.
Al teatro Eleonora Duse di Genova, ospite della stagione del Teatro Nazionale di Genova, dal 9 all'11 aprile. Il pubblico presente alla prima ha a lungo applaudito. E' auspicabile che le prossime repliche lo vedano più numeroso, come lo spettacolo merita.

L’Oreste di Francesco Niccolini, regia Giuseppe Marini, con Claudio Casadio, illustrazioni Andrea Bruno, scene e animazioni Imaginarium Creative Studio, Costumi Helga Williams / musiche originali Paolo Coletta / luci Michele Lavanga, produzione Accademia Perduta Romagna Teatri, Società per Attori in collaborazione con Lucca Comics & Games

Foto Tommaso Le Pera (particolare)