Pin It

L’atteso spettacolo dell’attore e regista Lino Musella debutta in Prima Nazionale l’11 aprile a Napoli, sfidando il pubblico napoletano che lo accoglie con grande clamore. Questo lavoro è un vero e proprio saggio sul teatro, inteso come momento

scenico che rappresenta una guida culturale e sociale, secondo le premesse e le solide basi classiche, mostrando la verità attraverso la finzione, affinché lo spettatore possa comprendere quanto avviene nel mondo. La funzione del teatro, non solo quello politico, appare prepotentemente sul palcoscenico del Teatro San Ferdinando, storico luogo eduardiano che risuona e rimbomba affinché si scuotano la memoria e le menti del pubblico. Un vero e proprio saggio di drammaturgia e di regia che Musella ha firmato con coraggio e professionalità, rinnovando il testo fonte e gli esempi passati di allestimento, senza tralasciare o perdere di vista la volontà dell’autore. Gli artisti dediti allo studio profondo e competente dei testi di varia natura riproducono poi in scena, con le loro tecniche e con la loro arte, un prodotto completo, che arriva ovunque esso sia rappresentato. 
Il titolo di questo spettacolo racchiude tre brevi testi firmati da Pinter, collocati tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento: IL BICCHIERE DELLA STAFFA, IL LINGUAGGIO DELLA MONTAGNA, PARTY TIME. L’ultimo testo, da cui è tratto anche il riferimento al titolo, è conclusivo di una vera e propria trilogia che, come afferma lo stesso Musella, è da leggere in continuità, sebbene i tre testi siano stati destinati singolarmente alla lettura e alla messinscena. La regia recupera alcuni degli elementi più importanti, alcuni di questi analizzati oggi dagli studiosi contemporanei, che costituiscono le fondamenta del rapporto tra testo e scena. Si intersecano con i tre testi anche alcune parti del lungo discorso di Harold Pinter, pronunciato in occasione della consegna del Premio Nobel nel 2005; l’autore, interpretato dallo stesso Musella, si presenta in scena ed espone la sua poetica, le sue idee, si sovrappone ai suoi personaggi, osserva il mondo e analizza i sistemi politici e sociali. Un lungo discorso, di natura completamente diversa rispetto al testo teatrale, come può essere inserito all’interno della trilogia pinteriana? Si potrebbe rischiare di annoiare il pubblico, di non far percepire il legame tra le tematiche narrate e poi incarnate dai personaggi. Ma ciò fortunatamente non avviene. La regia recupera alcune informazioni testuali e le proietta attraverso una cornice che inquadra la scena e che sembra invitare lo spettatore a sfogliare le pagine, ad annotare le date e a porre attenzione alle didascalie (ricordiamo la scelta di riprodurre in scena le didascalie, secondo una tendenza ormai molto diffusa, anche in TRADIMENTI di Pinter, per la regia di Michele Sinisi https://www.dramma.it/index.php?option=com_content&view=article&id=33162:tradimenti&catid=39&highlight=WyJ0cmFkaW1lbnRpIl0=&Itemid=14). La parola è la vera protagonista, scritta, pronunciata e proiettata, ma i concetti cardine dell’intero discorso sono il “potere” e la “verità”. Entrambi giocano un ruolo rilevante all’interno della cultura e della storia mondiali, qui utilizzati all’interno della scena teatrale, che nella sua forma artistica riesce a far emergere la vera verità. I tre testi fanno riferimento ad eventi politici e militari che hanno colpito l’opinione pubblica negli anni Ottanta e Novanta, ma che ancora oggi appaiono fortemente attuali: IL BICCHIERE DELLA STAFFA si lega alle storie dei desaparecidos argentini, IL LINGUAGGIO DELLA MONTAGNA alla questione curda, PARTY TIME è un evidente riferimento agli Stati Uniti e alle relazioni politiche tessute tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, i cui effetti si protraggono fino ad oggi.
La regia sceglie di collocare in fondo al palcoscenico, al centro, una struttura che ricorda a tratti un ascensore, un forno crematorio, una cassettiera, un montacarichi (che a sua volta ricorda alcuni allestimenti de IL CALAPRANZI). Si nota, dunque, un allontanamento parziale dall’ambientazione descritta da Pinter, sebbene l’autore fornisca delle indicazioni brevi e poco dettagliate all’interno dei suoi testi. Alcuni elementi, come la porta sul fondo o la musica in sottofondo, soprattutto durante tutta l’esecuzione di PARTY TIME, rispettano la volontà dell’autore, dimostrando la funzionalità di alcune scelte e soprattutto l’importanza di un palcoscenico che contenga pochi elementi, affinché la parola possa emergere prepotentemente attraverso la sua essenza. Ogni singolo personaggio, infatti, si carica di una valenza importantissima, diventando contenitore e vettore di tematiche che l’autore vuole comunicare al pubblico. 
IL BICCHIERE DELLA STAFFA è un titolo emblematico: protagonisti un prigioniero interrogato e il suo aguzzino. Il modo di dire si riferisce all’ultimo bicchiere che si beve in compagnia degli amici prima di congedarsi, prima di andare a casa, dopo un incontro piacevole. Il prigioniero, interpretato dallo stesso Lino Musella, vive in un limbo, un incubo oscuro perché non sa cosa gli accadrà, sebbene presagisca la sua fine. L’uno, il prigioniero, è vestito di nero, l’altro, l’aguzzino interpretato da Paolo Mazzarelli, di bianco. Quest’ultimo, infatti, esponente delle forze dell’ordine sottomesse al potere di Stato, non indossa una divisa, ma un elegante abito bianco, a contrasto con l’oscurità del vestiario del prigioniero. La distanza scenica tra i due è ampia, nel testo sembrano quasi toccarsi mentre l’aguzzino pone le sue dita sopra il visto dell’interrogato. Sul palcoscenico riempiono lo spazio, ma rimangono lontani, esponenti di due mondi in contrapposizione, mai in armonia. In alcuni momenti il silenzio del prigioniero, atterrito forse dalla paura, ma in realtà solido e, alla fine, consapevole del suo destino, sembra riempirsi attraverso le parole ironiche e pungenti del suo aguzzino: per un attimo lo spettatore, e anche il lettore, sembra confondersi. Il prigioniero parla con sé stesso? Si accusa? Sa di essere un debole rispetto al potere imperante? Sa che non ha scampo e vorrebbe reagire, rimproverandosi?  Gli altri personaggi, la moglie e il figlio, non compaiono in scena, come prevedeva Pinter, ma si sceglie di proiettare i volti dei due attori. La loro voce non è percepibile, ma le loro parole sono riportate, quasi come in un doppiaggio, dallo stesso aguzzino. Le vittime sottomesse non hanno più voce propria.
In ognuno di questi tre testi è presente un apparente festeggiamento: nel primo si beve l’ultimo bicchiere, nel secondo compare una torta di compleanno che una moglie vorrebbe consegnare al marito detenuto, il terzo è l’apoteosi della festa. Musella sceglie correttamente il titolo PINTER PARTY, sottolineando, ancora una volta, la connessione tra i tre racconti e l’ironia amara che caratterizza il concetto di “festa”.
La prima parte dello spettacolo è ampliata attraverso l’inserimento della prima parte del discorso di Pinter, scritto in occasione del Premio Nobel. Musella sveste la parte del prigioniero e rimane in scena, spostandosi fino a limite estremo del proscenio, parla con il pubblico, riporta le parole di Pinter sulla creazione del testo teatrale e, soprattutto, sulla nascita dei personaggi. L’attore, in questo caso, diventa esplicitamente portavoce del pensiero dell’autore. Improvvisamente è naturale immaginare Pirandello che parla con i suoi personaggi, all’interno del suo studio privato, alla cui porta bussano continuamente coloro che hanno bisogno di raccontare la loro storia, tematica descritta nella novella “Colloquii con i personaggi”, poi confluita nel famoso dramma “Sei personaggi in cerca d’autore”, tematica ben ripresa anche nel lavoro cinematografico di Roberto Andò “La stranezza”, che affida a Toni Servillo il ruolo dell’autore addormentato e in preda ai suoi sogni e al materializzarsi dei suoi personaggi. 
Mentre Musella dà voce a Pinter e ai suoi personaggi, ecco che compaiono gli attori de IL LINGUAGGIO DELLA MONTAGNA. L’ingresso in scena, i movimenti, la camminata, seguono un ritmo che non esiste nel testo, in quanto le donne in attesa di vedere i loro congiunti, all’interno del carcere, sono immobili, in piedi per ore e molto stanche. La costruzione di queste scene ricorda fortemente la tecnica della “schiera” che ormai riconosciamo all’interno degli spettacoli firmati dalla palermitana Emma Dante. I personaggi si allargano sul palcoscenico, occupano tutto lo spazio, appaiono come soldati-marionette, camminano perfettamente a tempo con le parole dell’autore, che nel frattempo, continua a descrivere la natura del teatro politico e, soprattutto, del linguaggio politico: «[…]la maggior parte dei politici, per ciò che viene dimostrato, è interessata non alla verità ma al potere e alla conservazione di quel potere. Per conservare quel potere è essenziale che la gente rimanga nell’ignoranza, che viva nell’ignoranza della verità, perfino la verità della sua propria vita. Ciò che ci circonda è dunque un immenso arazzo di menzogne, delle quali ci nutriamo». Le storie narrate all’interno del secondo testo, si racchiudono, poi, nell’incontro tra marito e moglie all’interno del parlatorio del carcere. Questa seconda parte sembra descrivere nel migliore dei modi la scelta di una certa oscurità, presente durante tutto lo spettacolo, che gioca con i chiaroscuri e con il contrasto tra luci improvvise e buio profondo. L’intero spettacolo, infatti, poggia su un’illuminazione fioca che rende la scena avvolta da un’atmosfera onirica e mai reale. La verità non viene a galla, le menti degli uomini sono offuscate, la visione non è mai nitida, l’oscurità nasconde ciò che forse dovremmo sapere. Poetica e delicata è l’immagine della testa del prigioniero, avvolto in un drappo bianco che ricorda la figura terribile delle esecuzioni operate degli Estremisti Islamici. Improvvisamente anche la testa della moglie si nasconde sotto il drappo bianco e i due si scambiano, sottovoce, parole affettuose e malinconiche, fino a riprodurre l’immagine del dipinto “Gli amanti” di Magritte. Questo secondo testo è dedicato alla lunga storia del popolo curdo che, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, vive la tragedia della mancata Patria, ritrovandosi continuamente profugo, esule e perseguitato. Musella sposta l’attenzione soprattutto sulle donne curde, in particolare su quel gruppo di partigiane rivoluzionarie che si sono riunite in falangi armate al grido di “Donna, vita, libertà”; lo slogan proiettato durante lo spettacolo è invece “Amore, silenzio, guerra”, evidente riferimento alla raccolta di poesie firmate da Pinter, dal titolo appunto “Poesie d’amore, di silenzio, di guerra”. Il legame con la storia delle donne curde è un elemento che l’autore non aveva previsto quando ha scritto questo testo, in quanto le soldatesse cominciano a creare questi gruppi armati dal 2013. La regia sceglie di proiettare alcune immagini delle soldatesse curde, tratte da un famoso documentario e forse, senza questo riferimento visivo, il pubblico meno informato non avrebbe colto nessun collegamento. L’assenza di questi inserti video, però, non avrebbe comunque modificato il messaggio, né avrebbe smorzato l’attenzione, pertanto appaiono superflui in alcuni momenti. La compresenza di vittime e di carnefici emerge violentemente anche all’interno del secondo testo, puntando sul concetto di lingua, elemento culturale che identifica i popoli. I prigionieri non possono utilizzare la lingua della montagna (i Curdi, in effetti, sono stati relegati in zone di montagna, soprattutto in Turchia) nelle conversazioni con i loro parenti in visita. Le guardie si trovano spiazzate e quando l’ordine dall’alto improvvisamente permette ai prigionieri e ai parenti di utilizzare il linguaggio della montagna, essi non riescono più a comunicare. Lo hanno dimenticato o forse hanno imparato a convivere con la paura e preferiscono non utilizzarlo. L’annientamento culturale, sia esso linguistico o religioso, è anch’esso una forma terribile di violenza.
Il terzo testo descrivere un party, sicuramente americano, in cui dialogano potenti, politici, imprenditori, che si divertono a suon di musica e bevendo alcool. Musella sceglie stavolta di interpretare un personaggio apparentemente secondario, ossia il cameriere, ruolo da sottomesso, nelle relazioni umane e sociali, che però conosce tutti i segreti. Entrano in scena tutti gli attori e la porta sul fondo, da cui proviene la musica sempre presente, come sottolinea Pinter in didascalia, dà accesso ad altre stanze. I protagonisti svolgono le loro conversazioni a bordo piscina e Musella apre un grande ombrellone che ricorda il tendone di un circo o la copertura di una giostra con i cavalli, il famoso Carosello. La regia sceglie di staccarsi dal testo e di far indossare a tutti i personaggi degli abiti in maschera, in particolare abiti dei super eroi. Il tema del gioco, caro al teatro, della condizione infantile, dell’atteggiamento bambinesco, emerge fortemente all’interno di questa terza parte.  Ritroviamo in scena alcuni dei super eroi della Justice League of America, in particolare Batman, Superman, Wonder Woman, Spiderman. Emergono anche due figure femminili, una donna straniera che ricorda Tiana, la protagonista del film di animazione Disney, tratto dalla storia dei Fratelli Grimm “La principessa e il ranocchio”. Per la prima volta la Disney disegna una protagonista e una principessa di colore. Inoltre, il personaggio femminile più anziano è travestito da Statua della Libertà, il cui seno è ridicolmente prosperoso, come una bambola gonfiabile, puntato in fuori, come due bombe belliche. Quest’ultimo personaggio, interpretato dalla splendida Betti Pedrazzi, è spesso oggetto di complimenti da parte dei convitati al party, perché la sua fisionomia non è mai cambiata nel tempo, sottolineando ironicamente come l’America non si sia evoluta, ridicolizzando l’emblema della pseudo libertà americana. Pinter certamente non ricerca tutte queste sfumature cinematografiche che ritroviamo nei super eroi, ma è evidente l’aperta critica agli Stati Uniti, all’immagine che perpetuano nel tempo, ergendosi a difensori della Libertà e della “Justice”. I dialoghi tra questi personaggi sono surreali, ridicoli, superficiali, immagine di un’alta borghesia politica che nasconde gli scheletri nell’armadio, in un’atmosfera surreale che rende inquietante l’analisi di questa ampia fetta di società che comanda sul mondo. I personaggi chiedono che fine abbia fatto Jimmy e il pubblico cerca di capire. Quando gli attori ricompaiono per gli applausi finali, lo spettacolo non è affatto concluso: indossano abiti contemporanei e interpretano tutti insieme Jimmy, il ragazzo che è stato ucciso, che ode i rumori delle bombe, che non sente più niente, che «succhia il buio». Musella chiude lo spettacolo citando un lungo estratto dell’ultima parte del discorso presentato da Pinter ai Nobel del 2005: una violenta accusa contro gli Stati Uniti d’America e contro i loro alleati, un elenco atroce delle guerre, delle crudeltà e delle verità nascoste. Il pubblico si ammutolisce, si affievoliscono anche le lievi risate incomprensibili, si rimane storditi. La verità alla fine viene a galla.
Un lavoro straordinario e una compagnia attraverso cui emerge un profondo affiatamento e una grande professionalità. In particolare, è necessario sottolineare la grande interpretazione di tutte le donne in scena, dalla stupenda Betti Pedrazzi, a Eva Cambiale, a Ivana Maione, fino a Dalal Suleiman, senza tralasciare gli altri attori, il già citato Paolo Mazzarelli, Totò Onnis, Gennaro Di Biase, Dario Iubatti, importanti colonne dell’intero spettacolo, guidati dall’accurato lavoro di Lino Musella. Quest’ultimo mette in evidenza il suo stile recitativo, attraverso un reiterato accento su alcune parole o frasi che ripete, più volte, per affermare, sottolineare e agganciare le frasi successive, secondo una tendenza che ormai caratterizza sempre di più questo attore, ormai anche regista.

Foto di Ivan Nocera
PINTER PARTY
Teatro San Ferdinando – Napoli
11-21 aprile 2024

PINTER PARTY
Il bicchiere della staffa, Il linguaggio della montagna, Party Time
di Harold Pinter
regia Lino Musella
con Lino Musella, Paolo Mazzarelli, Betti Pedrazzi, Totò Onnis, Eva Cambiale, Gennaro Di Biase, Dario Iubatti, Ivana Maione, Dalal Suleiman
in video Matteo Bugno
scene Paola Castrignanò
costumi Aurora Damanti
musiche Luca Canciello
disegno luci Pietro Sperduti
video Matteo Delbò
coreografia Nyko Piscopo
aiuto regia Melissa Di Genova
assistente alla regia volontario Antonio Turco
assistente alla regia tirocinante Federico II Giacomo Sergio Buzzo
direttrice di scena Teresa Cibelli
capomacchinista Fabio Barra
macchinista Nunzio Romano
datore di luci Giuseppe Di Lorenzo
fonico Italo Buonsenso
datrice video Livia Ficara
sarta Daniela Guida
sarta realizzatrice Deanna Bardazzi
foto di scena Ivan Nocera
realizzazione scene Loft Art e Vatiero
noleggio video Delta Music
trasporti e facchinaggio Santa Brigida
si ringrazia Renata Molinari e Leopoldo Guadagno

produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale