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Uno spettacolo pungente che riflette sul rapporto fra politica e indifferenza, impegno e disillusione, rabbia e disperazione di una generazione di giovani senza sogni.

La mattina dell’11 novembre 2019 gli abitanti di Turi (Bari) scoprono che nella notte è stato vandalizzato il volto di Gramsci nel murale realizzato sulle pareti del carcere cittadino: qualcuno, utilizzando l’acrilico rosso, ha scritto la parola GAY sulla fronte del grande politico e filosofo marxista italiano che, nello stesso carcere, aveva trascorso gli ultimi 6 anni della sua vita. In quei giorni, i quotidiani italiani bollano l’accaduto come gesto di matrice fascista e omofobica.È da questo episodio, realmente accaduto, che prende spunto lo spettacolo “Gramsci Gay”, andato in scena dal 18 al 21 aprile 2024 al Teatro Elfo Puccini di Milano. Un monologo di Iacopo Gardelli, con Mauro Lamantia e la regia di Matteo Gatta (produzione Studio Doiz-Ravenna), vincitore della “Borsa Teatrale Anna Pancirolli” 2022 e del bando “Teatro… Voce della società giovanile”, 2022.

Ma andiamo con ordine. In un 1920 dalla scena ridotta all’essenziale, poche sedie la fanno da padrone mentre un riflettore aspetta il suo protagonista. Un Antonio Gramsci non ancora trentenne porta sul palco la propria irrequietezza nelle mani tremanti, nella voce alterata, nella maglia bianca che emerge, tra le mosse del suo gesticolare, sotto una giacca troppo corta, confrontandosi con il pubblico del presente, specchio degli operai torinesi di un tempo, per convincerlo che la strada dell’agitazione è ancora quella giusta da percorrere nonostante lo sciopero delle lancette (200.000 lavoratori pronti a instaurare la rivoluzione comunista in Italia per rivendicare i propri diritti contro l’applicazione dell’ora legale) sia stato un grande fallimento.
Gramsci/Lamantia interroga la sala sul valore della cultura, su quella capacità che ha la nostra mente di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Egli incita al rinnovamento continuo, rivendica il potere delle idee, il suo essere partigiano e parteggiare, il suo odio verso gli indifferenti, verso chi abdica la sua volontà, verso chi lascia fare, promulgare leggi, salire al potere uomini che solo un ammutinamento potrà rovesciare.
Per tutta la prima parte dello spettacolo, Gramsci prova a persuaderci su quanto lo studio sia un mestiere molto faticoso (lui stesso, per poterselo permettere sollevava pile di fascicoli più alte di lui, al catasto, già all’età di nove anni). Su quanto studiare sia uno speciale tirocinio intellettuale, muscolare e nervoso che può portare all’organizzazione, alla disciplina, al possesso della propria personalità e alla conquista di una coscienza superiore che permette di comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e doveri.Qualcosa che consente a tutt* di diventare poet* e filosof*. Egli attira l’attenzione sul presente affinché, attraverso la cultura, lo si possa trasformare, con un ottimismo della volontà che vede nell’agire l’unica forma di speranza contro chi, utilizzando condizionali e “possibilità”, resta fermo e immobile
Gramsci rievoca il proprio istinto alla ribellione che lo ha salvato dal diventare un “sottoproletario modello” sottolineando come la cultura sia comprensione e azione, come non sia pedante conoscenza di date e dati, ma permetta di rendere universale la propria vita, agendo e non subendo la politica. Egli si scaglia contro la Provvidenza manzoniana che vuole ammaestrare il popolo abituandolo ad affidarsi sempre a qualcun* per essere salvato, citando la famosa “Storia del fosso”, in cui uno scienziato, un artista e un politico, vedendo un ubriaco caduto in un fosso, lo lasciano lì, ognuno con le sue motivazioni, finché l’uomo del fosso non si guarda attorno, vede con esattezza dove è caduto, si divincola, si inarca, fa leva con le braccia e le gambe, si rizza in piedi ed esce dal fosso con le sole sue forze. La prima parte di chiude con Gramsci, incarnazione della cultura salvifica di un tempo, che esce dalla scena lasciando il pubblico al buio, in attesa che qualcosa accada.
Un uomo appende alla parete l’immagine del Presidente Mattarella. Sulla scena, resta una sola sedia vuota. Siamo all’indomani dei fatti accaduti l’11 novembre del 2019. Lo straordinario e camaleontico Lamantia rientra in scena. Tolte le sembianze da intellettuale, veste, ora, quelle da ignorante. Seduto ai margini della società e del pubblico, egli si presenta alla platea con un linguaggio grezzo, incivile, condito da imprecazioni usate come intercalari. Il suo monologo è un vaneggiamento scombinato in cui riporta i fatti recenti che hanno caratterizzato la sua vacua esistenza: un lavoro al nord, presso il ristorante del cugino. Sei mesi a fare il cameriere con una carriera stroncata preannunciata da un imprevisto: il suo sangue dal naso sul piatto di un commensale e il licenziamento sopravvenuto nei giorni successivi. Al suo posto? Un “negro”. Il resoconto, eco di un’esasperazione che lo accomuna alla sua generazione di disoccupati, è seguitodal suo arresto.
Di fronte al commissario e a Massimo Gramellini che, sopraggiunto dal Corriere, lo interroga sul perché di questo gesto, sul perché abbia preso di mira Gramsci, il protagonista fa emergere tutte le sue lacune. La sua ignoranza su chi fosse l’uomo del manifesto, a quale partito politico appartenesse, rappresenta una critica nei confronti del giornalismo che, da sempre, bolla gli accadimenti, riconducendoli a espressioni e ribellioni ideologiche che, spesso, non c’entrano nulla. Il colpevole di “sfregio”, nell’intento di scagionarsi, anche agli occhi di sua madre che lo accusa di averlo, ancora una volta, deluso, fa emergere quanto quella parola “GAY” scritta sul volto di uno sconosciuto, fosse, in realtà diretta al proprio padre. Padre che lo aveva abbandonato per seguire un altro uomo. E se gli insegnamenti di Gramsci al popolo parlavano di cultura, quelli del padre del protagonista, sul finale, raccontano di una povertà intellettuale, di una miseria linguistica e cognitiva che non permette di comprendere ma, solo, di giudicare.
Lo spettacolo si chiude con “il sangue che scatta dal naso” del personaggio principale. È tornato Manzoni, la Provvidenza, l’uomo che ha assorbito la cultura del padrone, che non sa ribellarsi, che subisce senza comprendere e che, senza sangue e senza forza, è destinato a rimanere nel fosso.
Un monologo appassionato e straziante, fatto di fuoco e cenere, di speranze e disillusioni da far vedere, soprattutto nelle scuole. Affinché si comprenda come la cultura serva a non servire e a reagire a tutto ciò che è offesa alla propria dignità.