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Alla fine dello spettacolo gli attori sono visibilmente provati da una recitazione che hanno vissuto sulla loro pelle, interpreti quasi stanislavskiani di una vicenda drammatica, che lascia lo spettatore inchiodato alla poltrona e con l’amaro in bocca. Una storia reale, in cui soltanto i nomi dei personaggi sono di fantasia, commenta dopo gli applausi il bravo Paolo Perinelli, mentre i giovani attori dedicano la serata a due desaparecidos, con la voce rotta dalla commozione. L’emozione del resto traspare in tutta la messa in scena, grazie ad una interpretazione sentita e ai limiti dell’identificazione con il personaggio. L’ultimo volo, il nuovo lavoro del drammaturgo Gianni Clementi, in scena al Colosseo Nuovo Teatro di Roma fino al prossimo 16 ottobre con la regia di Claudio Boccaccini, è la storia di un gruppo di ventenni di Buenos Aires, che si presenta allo spettatore con tutto il carico di aspirazioni per il futuro e i propri sogni di gioventù. Mentre l’Argentina sta per vincere il campionato mondiale di calcio, i ragazzi si trovano prepotentemente di fronte alla violenza del regime sanguinario del dittatore Videla. A complicare la situazione già di per sé terribile, si aggiunge la presenza di Jaime, un ex-compagno di scuola, nel commando che ha in mano il destino dei giovani. Non è importante alludere all’esito della vicenda, perché la forza della pièce è nella costruzione di un intreccio tragico, che propone conflitti insolubili. Che si tratti di una tragedia è chiaro, nonostante molte scene divertenti e il ricorso ad un registro decisamente comico, anche nei momenti più drammatici. Ma L’ultimo volo è una tragedia senza catarsi, di quelle a cui il teatro del secondo Novecento ci ha abituato. È la tragedia storica di un popolo e di una generazione: dei giovani sequestrati e uccisi, dei bambini fatti nascere e strappati alle madri condannate a morte, delle vite spezzate dei genitori in cerca dei figli scomparsi nel nulla. Il tragico è nella gratuità di una violenza che si indirizza contro persone senza colpa, come i giovani protagonisti ripetono continuamente sulla scena: «Ma noi non abbiamo fatto niente!».   Esperanza, Ines, Mariela, Ruben e gli altri entrano in scena cantando e danzando, per presentarsi a turno, ognuno con le sue aspirazioni, con i suoi problemi e con i suoi amori. Simbolo di questa eccitazione, è il desiderio di volare di Mariela, realizzato paradossalmente nella seconda parte del dramma, con il volo nell’elicottero della deportazione, l’ultimo volo appunto. Allo stesso modo, anche la speranza di vedere l’Argentina segnare il gol del mondiale si compie durante il viaggio, lasciando i giovani con in gola l’urlo di gioia.   Il drammaturgo insiste ripetutamente sul violento contrasto dei sentimenti, mostrando l’amicizia come valore imprescindibile ma anche l’amico pronto a tradire, i sogni che si avverano in un orizzonte privo di ogni speranza, la nascita della vita che confina pericolosamente con la morte, la felicità soffocata da un destino cieco. Da questo quadro si distacca il personaggio di Mariano, che commenta dal proscenio e da un presente vicino allo spettatore anche dal punto di vista geografico. Garante dell’intreccio tra presente e passato, Mariano crea un ponte tra la Roma in cui si è trasferito e l’Argentina del 1978, da cui è scappato. Forse tentativo di captatio benevolentiae, il nesso appare in realtà abbastanza pretestuoso, così come i numerosi riferimenti all’Italia disseminati nei dialoghi.  Se sembra solida in una prospettiva strutturale e drammaturgica, l’opera è invece un po’ più debole proprio nei dialoghi, in cui abbiamo notato, tra l’altro, un eccessivo ricorso alla parolaccia come nota caratterizzante della gioventù. Nel complesso la pièce riesce comunque a colpire il pubblico, che in sala partecipa emozionato, grazie anche alla recitazione intensa e ad una regia sobria, che valorizza il testo.